“Ho cercato la grande bellezza”, dice il protagonista
dell’omonimo film, alla fine del suo percorso umano e spirituale. “E non l’ho
trovata”. È la constatazione rassegnata. Rimane solo la promessa non mantenuta
di un amore giovane e freschissimo. La realtà purtroppo è un grande trucco,
provoca illusioni e conseguenti delusioni. Si vive di sogni o di ricordi. Il
velo di Maia copre il nulla.
La prima parte del film è un viaggio alla ricerca di
una via di uscita dal torpore esistenziale e letterario dei meandri quasi
infernali delle feste romane “i cui trenini sono i più belli perché non portano
da nessuna parte”, per giungere – nella seconda parte – a porre la domanda di
senso ad interlocutori validi perché “spirituali”: un vescovo in odore di
papato e una suora austera fino a destare paura. Ma validi non si dimostrano:
il primo perché carnale, la seconda perché angelica. Nessuno dei due è
spirituale, nel senso di albergare la vita dello Spirito nella carne.
Il vescovo alla confidenza del protagonista sulle sue
inquietudini spirituali si allontana o cambia discorso parlando di carne e vino
(non quelli eucaristici). La suora, soprannominata la Santa, invece mangia
radici e dorme per terra. Proprio lei in una scena suggestiva raduna attorno a
sé dei bellissimi uccelli di cui dice di conoscere “il nome di battesimo” e li
fa volare soffiando loro sopra, nell’alba, un frammento di grande bellezza in
cui il creato è l’alfabeto che Dio usa per dialogare con l’uomo. Ma la
“santità” capace di questo – scavata in uno sguardo perso nel vuoto, in rughe
profondissime ma senza la vitalità di madre Teresa, nella salita slogata e
dolorosa della Scala Santa – è un modello lontanissimo per l’uomo di tutti i
giorni, figuriamoci per il protagonista dandy disilluso, timidamente in cerca
di un paradiso non artificiale.
La narrazione riconosce quindi la Chiesa come ultimo
interlocutore e le chiede ragione della speranza (che è la grande bellezza del
cristianesimo) che dice di avere. Ma il vescovo (carne senz’anima) e la Santa
(anima senza carne) non hanno risposte appetibili per l’uomo del mondo che, del
mondo nichilista ed edonista, ha riconosciuto “il trucco”.
L’uomo del mondo chiede dove siano uomini del mondo
come lui, ma con delle risposte. Questa è l’assenza fragorosa che il film fa
emergere. Dove sono i fedeli laici immersi nel mondo, “come l’anima nel corpo”,
si diceva dei primi cristiani? Chi sta nel mondo può essere solo mondano? Solo
chi si allontana dal mondo, non ne è inghiottito? C’è spazio per la
contemplazione della bellezza nell’agone delle 24 ore? C’è spazio per il non
plus ultra nel quotidiano?
Eppure la fede è fondata sull’incarnazione del Verbo.
La carne di Dio ha attraversato in Cristo tutto il ventaglio dell’esperienza
umana: il lavoro, il sudore, il fallimento, la gioia, il sorriso, il pianto, la
stanchezza, la noia, il tradimento, l’amicizia… e ha reso quindi ogni vissuto
umano – in unione con Cristo – un luogo di incontro con il Dio trascendente,
che salva quella singola e apparentemente insignificante esperienza. Ma questo
è possibile solo a chi vede Dio nell’agire quotidiano, anzi trova nell’agire
quotidiano il dialogo con Dio, altrimenti impossibile per chi ha un lavoro e
una famiglia.
La grande bellezza è quotidiana e a portata di mano,
solo se reintroduciamo la contemplazione all’interno dell’azione quotidiana, se
l’ininterrotto dialogo, che lo Spirito causa dentro di noi e attorno a noi,
viene colto in ogni momento. Ma questo è possibile solo grazie ad una vita
dallo “stile sacramentale”, cioè una vita in cui il visibile rimanda ad una
pienezza di cui è ombra: “…la fede ha una struttura sacramentale. Il risveglio
della fede passa per il risveglio di un nuovo senso sacramentale della vita
dell’uomo e dell’esistenza cristiana, mostrando come il visibile e il materiale
si aprono verso il mistero dell’eterno”. Sono parole di papa Francesco nella
Lumen Fidei (n.40), che forse potremmo prendere sul serio.
È impossibile contemplare senza vita sacramentale,
perché la trasformazione è gratis data sacramentalmente solo dallo
Spirito ad ogni singolo uomo che la desideri mentre si muove nel mondo, con il
suo lavoro, le sue bollette e il traffico. Quel tocco divino che rivela
nell’agire ordinario la grande bellezza, che non è da mettere nelle cose, ma è
nelle cose e nelle persone, perché ce l’ha già messa Dio. Contemplativo può
essere chiunque risponda a questa chiamata continua, reale, forte nella vita
ordinaria: sul tram, in macchina, in cucina, a tavola. Solo nel sacramento lo
sguardo, l’udito, l’olfatto, il tatto, il gusto si aprono alla grande bellezza,
che quotidianamente balugina nelle 24 ore e fa nuove tutte le cose di quelle 24
ore. E si trova non solo nel silenzio di una chiesa, ma nel caricare una
lavatrice e nel fare una lezione, nell’inserire dati in un computer e in una
passeggiata al parco, nell’ascoltare musica e nel chiacchierare con un amico…
In tutto, perché tutto è grazia e tutto è buono per chi crede. Il mondo diventa
tempio, pur mantenendo l’autonomia che Dio gli ha conferito.
Ma solo chi vive sacramentalmente la vita, vede la
vita per quello che è: frammento di una trascendenza, che dà gusto a quel
frammento. Il cristiano contemplativo è un vero edonista: è immerso nel mondo
senza esserne sommerso. Dio è un padre che si china su un bambino e gli regala
il mondo perché giochi con lui. Dio non è una dottrina astratta per pochi o una
serie di leggi impossibili da rispettare. Dio è un gioco padre-figlio, un gioco
impegnativo come tutti i giochi divertenti.
La grande bellezza, la grandissima bellezza, è la
trasfigurazione sacramentale del visibile, scovata dalla contemplazione
nell’agire quotidiano, l’ancoraggio a Cristo nella giornata concreta, i cui
gesti “risorgono”, i gesti tutti, e la loro grandezza non è determinata dal loro
incerto successo ma dall’amore che vi scopriamo dentro e mettiamo dentro.
Troppo cristianesimo triste – papa Francesco ha detto
recentemente che “i cristiani tristi non credono nello Spirito Santo”-
assomiglia a quelle coppie il cui l’amore dato per scontato si spegne, non
viene più espresso, celebrato, festeggiato. Il mondo non è più il teatro dove
l’altro si muove, ma ritorna muto e ripetitivo. Lo stile non è più luminoso e
aperto, ma grigio e abitudinario, ripiegato su di sé. Non c’è più nessun liturgia
amorosa, non c’è più segno che ricordi l’altro: nessuna foto nel portafogli o
sulla scrivania, nessun piatto preferito in tavola. Solo se cerchiamo di
affermare, approfondire, rendere consapevole e impegnativo l’amore di Dio,
allora tutto in noi si trasforma, come un giovane che s’innamora, o come un
amore che dimora nella giovinezza.
Solo se i nostri sensi diventano porte aperte al dono
continuo della grazia, lo Spirito potrà attraversarci e mostrarci la grande
bellezza dell’ordinario. Senza questo la vita è dis-graziata, esiliata dalla
grazia. Del bianco delle vesti di Cristo, nella Trasfigurazione, ci viene detto
che non poteva ottenerlo nessun lavandaio. Le vesti, persino le vesti, a
contatto con la carne del Verbo, diventano luce e bellezza. Persino i vestiti
diventano segno di Dio, stilista impareggiabile già dell’erba del campo,
figuriamoci dell’uomo che per le strade faticose del mondo brama la Grande
Bellezza.
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