giovedì 28 febbraio 2013

DALL'ESORTAZIONE APOSTOLICA SACRAMENTUM CARITATIS

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Spiritualità e cultura eucaristica

77. I Padri sinodali hanno significativamente affermato che « i fedeli cristiani hanno bisogno di una più profonda comprensione delle relazioni tra l'Eucaristia e la vita quotidiana. La spiritualità eucaristica non è soltanto partecipazione alla Messa e devozione al Santissimo Sacramento. Essa abbraccia la vita intera » (216). Questo rilievo riveste per tutti noi oggi particolare significato. Occorre riconoscere che uno degli effetti più gravi della secolarizzazione poc'anzi menzionata sta nell'aver relegato la fede cristiana ai margini dell'esistenza, come se essa fosse inutile per quanto riguarda lo svolgimento concreto della vita degli uomini. Il fallimento di questo modo di vivere « come se Dio non ci fosse » è ora davanti a tutti. Oggi c'è bisogno di riscoprire che Gesù Cristo non è una semplice convinzione privata o una dottrina astratta, ma una persona reale il cui inserimento nella storia è capace di rinnovare la vita di tutti. Per questo l'Eucaristia come fonte e culmine della vita e missione della Chiesa si deve tradurre in spiritualità, in vita « secondo lo Spirito » (Rm 8,4s; cfr Gal 5,16.25). È significativo che san Paolo, nel passo della Lettera ai Romani in cui invita a vivere il nuovo culto spirituale, richiami contemporaneamente alla necessità del cambiamento del proprio modo di vivere e di pensare: « Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi, rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto » (12,2). In tal modo, l'Apostolo delle genti sottolinea il legame tra il vero culto spirituale e la necessità di un nuovo modo di percepire l'esistenza e di condurre la vita. È parte integrante della forma eucaristica della vita cristiana il rinnovamento di mentalità, « affinché non siamo più come fanciulli sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina » (Ef 4,14).

Nel titolo si legge "[...] sull'Eucaristia fonte e culmine della vita e dela missione della chiesa". Sempre nel titolo è precisata questa chiesa: "[...] all'episcopato, al clero, alle persone consacrate, e ai fedeli laici".

Ebbene concretamente e quotidianamente rileviamo l'importanza di questo sacramento? È davvero forte il legame tra il culto spirituale e una nuova percezione e conduzione della vita. Soprattutto la forma eucaristica conferisce alla vita cristiana un continuo rinnovamento di mentalità. Ci sentiamo allora continuamente rinnovati e in continuo rinnovamento?

 

martedì 26 febbraio 2013

"Le incongruenze nella Chiesa prima o poi esploderanno"

Condividiamo un articolo ben scritto sperando di stimolare qualche riflessione.

L'abbadessa di Viboldone :"Le incongruenze nella Chiesa prima o poi esploderanno" di Michele Smargiassi – la Repubblica – 3 febbraio 2013 – pagg. 30, 31

"Le lacrime», dice madre Ignazia col suo sorriso leggero, misurato, saggio. Quasi cinquant'anni trascorsi fra queste mura dell'abbazia hanno addolcito nel ricordo il pianto improvviso di quella novizia entusiasta ma umanamente spaesata. Le assegnarono un lettuccio nella camerata che era diventata questa nobile stanza della musica, nel vecchio edificio del Priore, fra gli antichi affreschi, qui, sotto il graffito Hic fuit Leonardus che potrebbe essere proprio di mano di quel Leonardo, ma per lei la magia di quel posto era poter intravedere anche di notte, dal finestrone, la facciata della chiesa, «consolazione nei momenti di smarrimento». Tanti? Risponde scegliendo le parole: «Siamo donne. Non siamo angeli misteriosi».

Clausura. Mito potente. Scatenatore di immaginari laici e credenti, romanzeschi e teologici, malevoli e benevoli, tutti fondati sul nulla. «L'icona della donna nascosta, velata, silenziosa e solitaria, in fuga dal mondo, è un mito che purtroppo fa breccia anche nell'immaginazione di tante giovani consorelle. Ma tutta questa idea della solitudine dell'uomo di fronte a Dio è un equivoco, viene dalla cultura romantica, e ancora prima dal pensiero plotiniano… ». Era studentessa di filosofia, nel Mondo, Ignazia Angelini. Prima di scegliere.

Il cancello sul parcheggio è aperto. Il luogo comune della clausura vacilla fin da qui. C'è pure un campanello. Un vialetto di ghiaia. Edifici bassi color ocra, senza pregio, attorno alla chiesa antica. È lei in persona, la badessa Ignazia, ad aprire il portone: «Siamo poche, dobbiamo fare tutto da noi». Dentro, arredi da linda parrocchia, vecchie tele di soggetto sacro, incongrui libri del Touring Club su un tavolino. Dalla cucina, rumore di stoviglie. Squilla a lungo un telefono. Suoni ordinari di qualsiasi comunità senza mistero. La navata romanico-gotica della chiesa risuona dei nostri passi. «Il libro che ha letto è nato qui. Passiamo ore e ore, in chiesa, tra Lectio Divina e Vespro…». Nella luce invernale fioca che cade dal rosone, indica: «Ecco, quello è il mio posto». Una seggiola fra le altre, nella navata sinistra, di fianco all'altare e di fronte all'affresco della Preghiera di Gesù nel Getsemani. «Lo guardo spesso, mentre preghiamo: vede, quei discepoli siamo noi, addormentati di fronte al mistero di Cristo che prega con grida e lacrime lottando contro la necessità della morte». Possiamo fotografarla qui, al suo posto? «No. Sarebbe una falsità. Io non sono mai sola, quando sono qui. Lei è venuto per conoscermi, non è così? Bene, deve accettare che io parli di me solo nella relazione con le sorelle. Lasci perdere quel che immagina sulla clausura: il cuore di questa scelta è vivere sempre, e solo, nella relazione. Costruire tra noi una relazione stabile, in questo mondo di rapporti mobili e smarriti, può essere molto faticoso. Noi non viviamo assieme perché ci troviamo simpatiche, per affinità elettive, ma per sostenerci nel cercare Dio». La monaca è un noi. Le domande biografiche infastidiscono madre Ignazia. Avrebbe perfino voluto non firmare Mentre vi guardo, il libro che Einaudi le ha proposto e che lei, dopo qualche esitazione, ha scelto di scrivere. Per ribaltare il nostro sguardo confuso. Per far capire a noi, che guardiamo alla clausura, curiosi, alcuni anche morbosi, che invece è la clausura che guarda noi.

Madre Ignazia è una monaca, e viene pure da Monza. Ma la cupa storia del Manzoni nel suo caso si ribaltò da così a così. Fu lei, diciannovenne, una mattina nebbiosa del '64, a insistere per farsi portare qui, fra i fossi e le marcite di un'umida campagna lombarda, «un luogo impossibile» per un convento. Alla guida della 600 rossa, suo padre non voleva proprio. «Quando scese la sbarra del passaggio a livello mi disse: ecco, vedi, è il Signore che ti manda un segno, torniamo a casa. Io dissi: papà, il Signore ha già scelto». Quei binari furono la soglia simbolica della sua nuova vita: non le grate di ferro. Le inferriate, simbolo stesso della clausura, alimento più che ostacolo alle fantasie dei laici, qui a Viboldone c'erano, almeno in chiesa, fino a otto anni fa. «In questo punto della navata. Impedivano ai fedeli, durante la messa, di vedere le monache. Le togliemmo per un restauro del pavimento. E non le rimontammo più…». Dimenticanza consapevole. «Le grate sono un simbolo equivoco e pericoloso. Il popolo di Dio non può essere diviso mentre prega, il Vaticano II ce l'ha insegnato. E la nostra separatezza, se non la costruiamo dentro di noi come un valore, non sarà difesa da barriere fisiche». A volte farebbero comodo, le grate. «Alla fine delle messe, quando vorremmo restare concentrate nella meditazione, la gente ci viene addosso, ci chiede, un po' ci soffoca». In verità, il Mondo bussa sempre più spesso alla porta del convento. «La parrocchia non è più un riferimento stabile, i sacerdoti sono pochi e sempre in giro, le canoniche hanno orari rigidi e sono spesso chiuse». La porta del monastero invece si apre sempre. Sono storie, richieste di conforto, di aiuto materiale e morale, drammi di malati, di emarginati, di disperati, a volte duri, sempre umani. A volte invece sono provocazioni, sfide. «Vengono per dirci: ma cosa fate ancora chiuse qui dentro, uscite, vivete nel mondo, tra le sue sofferenze…». Atei irridenti? Il sorriso ora ha una punta d'ironia: «Anche alcuni preti…».

Il Mondo è ambiguo, oggi, col monastero. Lo idealizza, vi cerca conforto, ma ne ha anche fastidio, lo aggredisce. «Vivere nell'orbita di Milano è un grande rischio, si sente il peso di un modello di vita antitetico al nostro». Il convento ne è investito come da un vento del deserto. Bene culturale per le istituzioni, consumo da weekend per i turisti, esotismo intellettuale new age per annoiati, beauty farm dell'anima per coscienze depresse. Il Mondo ha armi destabilizzanti, seducenti. Internet, per esempio, rischia di sfondare là dove la tivù si fermò. «La televisione c'è da tempo, in monastero. Ma non la guardiamo quasi mai, qualche telegiornale mentre laviamo i piatti». Internet invece non si lascia tenere a cuccia. Qui è entrato come tecnologia di lavoro. Le monache benedettine di Viboldone adempiono il secondo corno dell'ora et labora restaurando libri antichi, sono diventate vere professioniste, la biblioteca Ambrosiana si fida di loro, hanno avuto per le mani i codici di Leonardo, digitalizzano le pergamene, sono straordinarie con Photoshop, e le mettono online. «Internet è comodo, utile. Sempre a disposizione, compiacente, seduttivo… Sembra governabile: una email che male fa? Posso leggerla quando voglio… E invece Internet è l'antimonastico per eccellenza. Monaco viene da monos, che significa unico, integro, autentico. Ma quando "sei su Internet" non sei né unico né autentico, sei solo una parte, una superficie, un'immagine virtuale. Se qualcosa può scardinare la nostra scelta alla radice, è questo strumento». Il Mondo sciaborda alle porte del convento, e il convento vacilla. «Eravamo una sessantina negli anni Sessanta, oggi siamo ventiquattro. Mettiamo nel conto di non esserci più, prima o poi». Rassegnate? «Consapevoli. L'esistenza del monastero non è garantita da nulla. In Cappadocia, culla del monachesimo, non ci sono più conventi ». Il monastero non serve più al mondo contemporaneo? «Ci sono monasteri fortemente identitari, molto legati a movimenti ecclesiali, o guidati da capi carismatici fortemente autoritari, che attirano molte vocazioni. Sopravviveranno meglio di noi. Ma intanto lasciano qualche maceria umana sul loro cammino, ne sappiamo qualcosa noi, che a volte le raccogliamo».

I monasteri degli uomini si sono «ormai clericalizzati», tra frati e preti non c'è più tanta differenza. Ma le donne nella Chiesa non hanno altra scelta. Il loro posto è solo qui. Custodi dello spirito più puro del monachesimo, ma a rischio di «farci trasformare in mummie» dalla «retorica dell'immolazione della donna a causa di Dio». Nel suo libro, madre Ignazia ha parole taglienti per la «tutela gerarchica maschile» sugli ordini religiosi femminili, per «lo sguardo indagatore dei signori di curia», per la condizione sempre più stretta dello «stare sotto i preti». C'è un fermento, nei conventi femminili, che i media interpretano come "femminismo nella Chiesa" ma forse è altra cosa. Madre Ignazia arriva a profetizzare che «le incongruenze esploderanno prima o poi». Ma al solito, quel che il mondo vede del monastero, come se ci fossero ancora le grate, è un'immagine parziale. «C'è dispiacere tra noi per il ruolo delle donne nella Chiesa, è vero. Per un ruolo perduto. Nelle prime comunità cristiane le donne erano importanti. Del resto, una donna fu scelta per dare l'annuncio della Resurrezione. Poi nei secoli qualcosa è successo, qualcosa non ha funzionato. A noi è rimasto solo il ruolo di "brave bambine" della Chiesa, il fiore all'occhiello dei chierici. Ed è stato un grande spreco». E dunque? «Dunque, se lei immagina cortei di protesta, rivendicazioni, manifestazioni, bene, non accadrà. Il nostro ruolo non è diritto, è grazia. Non si rivendica: si cerca. Il sacerdozio femminile, per esempio. La via è oggettivamente aperta, non vedo ostacoli prettamente teologici. Ma non mi par di vedere che lo avremo presto. Non ci sono le condizioni antropologiche ed ecclesiali. E poi, le donne per prime scadono continuamente nel gregarismo. Ci vorrebbero, radicate nell'oggi, donne coraggiose e appassionate al vissuto della fede, come la Chiesa ne ha avute e non sembra avere più, donne come Chiara d'Assisi, Ildegarde, Caterina, Brigida di Svezia, Teresa…».

Le mani intrecciate, esile, ferma, madre Ignazia fa strada verso l'uscita. Affrescati sotto un arco, volti medievali di donne. «Le hanno dipinte qui perché ammonissero le monache ogni volta che entravano in chiesa. Sono le vergini folli e le vergini sagge della parabola». Difficile distinguere a colpo d'occhio le une dalle altre: altere, severe, belle, si somigliano un po'. Ma solo una di loro ti guarda negli occhi, ferma, interrogativa, con un leggero misurato sorriso saggio, dal suo convento di pietra.

Preghiera

Condividiamo con voi una bella preghiera del vescovo Guy Deroubaix.



Signore, aiutaci a edificare una Chiesa in cui è buono e bello vivere
in cui si può respirare, dire cosa si pensa
una Chiesa di libertà
una Chiesa che ascolta prima di parlare
che accoglie prima di giudicare
che perdona senza voler condannare
che annuncia piuttosto che denunciare.
Una Chiesa di misericordia
Una Chiesa in cui l’audacia del nuovo, dell’inaudito
Sarà più forte dell’abitudine di fare come prima.
Una chiesa in cammino in cui lo Spirito potrà farsi invitare
Perché non tutto sarà previsto, regolato, deciso in anticipo.
Una Chiesa aperta
Una Chiesa di cui non si possa dire <<Vedete come sono organizzati>>
Ma piuttosto: <<Vedete come si amano! Sono discepoli di Gesù Cristo!>>

La tua vigna, Signore

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SALMO 79
Le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici e ha riempito la terra.
La sua ombra copriva le montagne e i suoi rami i più alti cedri.
Ha steso i suoi tralci fino al mare e arrivano al fiume i suoi germogli.

Quaresima, tempo privilegiato per entrare in contatto con se stesso, con Dio, con gli altri e ogni giorno, la Parola ci invita all'ascolto di Dio che parla nella Scrittura, nell'Universo, nelle vicissitudini della vita.
Il Salmo 79 ricorda le grandi gesta e gli eventi della storia del popolo di Dio e di come Dio ha realizzato meraviglie per lui. Il popolo è paragonato a una vigna della quale Dio si prende cura "É la tua vigna, Signore."
Il salmista chiede che la vigna sia curata e restaurata e che il volto di Dio torni a risplendere sul popolo, implorando: Tu pastore d'Israele, ascolta, tu che guidi Giuseppe come un gregge. Assiso sui cherubini rifulgi davanti a Efraim, Beniamino e Manasse. Risveglia la tua potenza e vieni in nostro soccorso. Rialzaci, Signore, nostro Dio, fa splendere il tuo volto e noi saremo salvi.
Guardando la realtà che ci circonda, vediamo che c'è una ricerca di senso e di spiegazione a molti problemi che si presentano ogni giorno. Ci accorgiamo che certe cose sfuggono dalle nostre mani; ci rendiamo conto delle nostre impotenze; siamo affamati di sempre maggior conoscenza ed efficienza; le sfide e le scoperte tecnologiche ci attirano e ci schiacciano. Ci sono molti cambiamenti culturali; assistiamo alla globalizzazione delle idee, della politica, degli interessi economici; vediamo Paesi potenti che dominano i più poveri; la natura e il pianeta sono sfruttati e rovinati; milioni di giovani si ritrovano senza orizzonti e privi di affetto e di attenzione.
La nostra "vigna" sembra essere calpestata a ogni momento. Non sempre alla persona viene riconosciuto il valore che ha, non è rispettata nella sua dignità e nei suoi diritti. Sia la tua mano sull'uomo della tua destra, sul figlio dell'uomo che per te hai reso forte. Da te più non ci allontaneremo, ci farai vivere e invocheremo il suo nome.
Il Salmo ci invita a leggere i segni dei tempi e di vedere i passi di Dio nella nostra storia, per questo è necessario un esercizio permanente di attenzione, per vedere con gli occhi del cuore.
Anche la nostra vita è “la vite che Dio piantò”. Dio degli eserciti, volgiti, guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi il ceppo che la tua destra ha piantato, il germoglio che ti sei coltivato.
San Domenico ha coltivato la propria vigna, nell’ascolto assiduo della Parola, nelle prolungate veglie di preghiere e nel contatto con la gente predicando la Buona Nuova del Vangelo a tutti senza distinzioni.
Chiediamoci: “Com’è la mia vigna? È curata, germoglia al tempo giusto producendo buoni frutti? Oppure è abbandonata, secca, priva di vita e senza frutti?”.
La Quaresima è un tempo propizio per rivedere la nostra vigna e chiedere a Dio di venire a visitarla, di restaurare la speranza, la gioia, il coraggio, lo sguardo, la capacità di compassione e di contemplazione e di rinnovare la nostra volontà di lottare per la giustizia e la pace.

sabato 23 febbraio 2013

IL DESERTO FIORITO

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L’ultimo libro della Sacra Scrittura è intitolato “Apocalisse”, parola che significa “rivelazione” e parla del cammino della Chiesa di Cristo nel tempo. E’ un libro molto ricco di contenuti ma di non facile comprensione nel suo linguaggio simbolico.
Nel cap. 12,1-6 dell’Apocalisse troviamo queste parole:
Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto. Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava giù un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire per divorare il bambino appena nato. Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e il figlio fu subito rapito verso Dio e verso il suo trono. La donna invece fuggì nel deserto, ove Dio le aveva preparato un rifugio perché vi fosse nutrita per milleduecentosessanta giorni.
Con l’immagine della donna vestita di sole, che è possibile riferire anche alla Chiesa di Cristo, spesso è stata rappresentata la Vergine Maria in dipinti, statue, canti…
Si parla di un bambino che nasce, che è certamente Cristo Gesù nato da Maria, ma può essere anche la Chiesa che nel suo significato di popolo di Dio è chiamata anche “corpo mistico”, di cui il capo è Gesù. Si parla di deserto, tradizionale luogo di rifugio per i perseguitati, ma anche luogo di incontro con Dio, dove si può trovare il nutrimento della vita divina.
Sappiamo trovare anche per noi qualche tempo di deserto?
Tempo di silenzio, di dialogo con noi stessi e con il nostro Signore, staccandoci un poco da un eccessivo frastuono che talvolta viviamo nelle nostre giornate. I deserti non sono fatti solo di instabile sabbia, ci sono rocce e grotte che possono dare sicurezza, ci sono le oasi, e c’è anche una periodica fioritura del deserto.
Ci sono le insidie e i pericoli, ma allora rivolgiamoci a Gesù che ha voluto vivere anche questa esperienza per noi, e rivolgiamoci a Maria che, come stella nel cielo, ci aiuta a trovare la giusta direzione. Ce lo dice anche un antico inno che troviamo pregando le lodi:

Ave, stella del mare,
madre gloriosa di Dio,
vergine sempre, Maria,
porta felice del cielo…

Donaci giorni di pace,
veglia sul nostro cammino,
fa’ che vediamo il tuo Figlio,
pieni di gioia nel cielo.

Lode all’altissimo Padre,
gloria al Cristo Signore,
salga allo Spirito Santo
l’inno di fede e d’amore.

Amen

mercoledì 20 febbraio 2013

...Le virtù della Beata Imelda...Comunione

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“Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi” (Lc 22, 15). Il Dono dell’Eucaristia è comunione di Gesù con noi e di noi con Lui. Nella comunione Egli ci trasforma in se stesso, ci rende ricchi di Dio! E ci rende più fortemente uniti, nella carità, con i fratelli.
Dopo la sua prima comunione Imelda non si separò più da Gesù. Lasciò questa vita per la vita definitiva, dove la comunione con Dio è perfetta. Questo è il grande messaggio della sua breve esistenza.
Qual è la mia vocazione? Non sarà quella di Imelda perché Dio ha un suo progetto unico per ciascuno di noi. Certamente anch’io sono chiamata alla comunione con Dio e con i fratelli; una comunione di amore. È per questa crescita di amore che Gesù mi offre la comunione eucaristica. Come vivo questo incontro con Gesù nella Messa? Perché sia più fervorosa la mia comunione eucaristica, esprimerò frequentemente a Gesù il mio desiderio di comunione spirituale.


martedì 19 febbraio 2013

MISERICORDIA


Siamo nel tempo di Quaresima e normalmente lo associamo con la preghiera, l’elemosina e il digiuno. Ma al di là di questi atteggiamenti e azioni, buoni e necessari, è soprattutto un tempo per riscoprire l’infinito amore di Dio per ciascuno di noi, indipendentemente dal nostro essere buoni o meno. Infatti, le letture sono piene di speranza e non si stancano di ripetere quanto Dio ci ama e quanto grande è la sua misericordia per noi. Dio è ricco di misericordia e anche noi siamo chiamati a essere misericordiosi.
            Una caratteristica importante della vita domenicana è la misericordia. Di fatto, quando qualcuno chiede di essere accettato nella famiglia domenicana, alla domanda “Che cosa chiedi?” risponde “La misericordia di Dio e la vostra”. Sono due misericordie che si compenetrano e si fondono: quella di Dio si fa presente nella comunità che accoglie. A volte, sentiamo i limiti, la miseria, l’imperfezione che ci abitano e chiediamo alle sorelle l’aiuto, il sostegno la comprensione per crescere nella virtù, per sviluppare le nostre energie e capacità aprendo sempre più l’intelligenza alla Verità, il cuore all’Amore, la vita al dono di noi stesse.

            Questa è la via domenicana della misericordia, questo è l’anelito che troviamo in ogni casa domenicana. L’Ordine domenicano è stato fondato proprio per diffondere la buona notizia dell’amore misericordioso di Dio per l’umanità. Quando Domenico era ancora studente, ci fu una grande carestia in tutta la Spagna; egli, toccato dalle necessità dei poveri e mosso a compassione, vendette tutti i suoi libri e diede il ricavato ai poveri. Domenico vedeva non solo la povertà materiale della gente, ma anche e soprattutto la povertà spirituale che impediva alla gente di scoprire il volto misericordioso di Dio. Sentendo nella sua vita la misericordia di Dio, egli la riversava sugli altri, specialmente sui peccatori, per i quali pregava e faceva penitenza così da attirarsi la benevolenza e l’affetto di quelli che avvicinava.
            La vita e l’esempio di Domenico c’incoraggiano e c’invitano ad accogliere la misericordia di Dio e ad essere, a nostra volta, portatori di misericordia per i nostri fratelli e sorelle.

BEATO GIOVANNI DA FIESOLE (BEATO ANGELICO) (fine 1300-1455)

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Giovanni da Fiesole, al secolo Guido di Pietro Trosini, nasce a Vicchio (FI) nel 1395 circa.

La sua educazione artistica si svolse nella Firenze di Lorenzo Monaco e Gherardo Starnina; dal primo riprende sia l'uso di colori accesi e innaturali, sia l'uso di una luce fortissima che annulla le ombre e partecipa al misticismo delle scene sacre, tutti temi che ritroviamo nella sua produzione miniaturistica e nelle sue prime tavole.
Nel 1418 realizzò una pala d'altare per la cappella Gherardini in Santo Stefano a Firenze (perduta).
Quando sentì la vocazione, insieme al fratello Benedetto, si presentò al convento domenicano di Fiesole. Ordinato sacerdote assunse il nome di Fra Giovanni da Fiesole. L’azione di santo e di artista del giovane si svolse mirabilmente nel clima di alta perfezione spirituale e intellettuale trovato nel chiostro. Le sante austerità, gli studi profondi, la perenne elevazione dell’anima a Dio, affinarono il suo spirito e gli aprirono orizzonti sconfinati. Fedele agli impegni della vita religiosa, con la sua arte celestiale comunicava ai confratelli e ai fedeli i divini misteri che contemplava nella preghiera e nello studio. Così preparato, da buon Frate Predicatore, poté anch’egli dare agli altri il frutto della propria contemplazione e dar vita, col suo magico pennello, al più sacro dei poemi, narrando ai fratelli la divina storia della nostra salvezza. I suoi Crocifissi, le sue Madonne, i suoi Santi sono una predica che risuona nei secoli.
Dipinse molte pale d’altare a Fiesole (1425-1438) e a Firenze, nel convento di San Marco, su richiesta del grande sant’Antonino, allora priore, decorò con affreschi il chiostro, l’aula capitolare, le celle e i corridoi (1439-1445).
Chiamato a Roma da Eugenio IV, dipinse due cappelle nella basilica di San Pietro e nei Palazzi Vaticani; su incarico di Nicola V, che lo stimava per la sua purezza di vita e per la santità dei costumi, ne decorò la cappella privata e lo studio (1445-1449). Lavorò anche nel convento di San Domenico a Cortona (1438) e nella cattedrale di Orvieto (1447).

Michelangelo ebbe a dire del Beato, ammirando l’Annunciazione e l’Incoronazione in San Domenico di Fiesole: “Io credo che questo Frate vada in Cielo a considerare quei volti beati e poi li venga a dipingere qua in terra”.

Anima di una semplicità evangelica, seppe vivere col cuore in cielo, pur consacrandosi ad un intenso lavoro.
Non volle accettare la carica di arcivescovo di Firenze, offertagli da Eugenio IV, persuadendolo invece ad insignirne sant’Antonino. 
Fu da Dio chiamato al premio eterno il 18 febbraio 1455 a Roma, nel convento di Santa Maria sopra Minerva, dove il suo corpo è ancora conservato nella attigua Basilica Domenicana. Il suo ritratto, sporgente dal pavimento è conservato ancora oggi nella basilica.

Figura singolare quella di Giovanni da Fiesole, tanto nella storia dell'arte che in quella della Chiesa. La diffusa fama di santità che lo distinse già in vita tanto da valergli gli appellativi di Angelicus e di Beatus - quasi egli dipingesse per ispirazione divina - è stata riconosciuta ufficialmente solo nel 1982, quando il Beato Giovanni Paolo II (Karol Józef Wojtyła, 1978-2005) ne ha sancito la memoria al termine dell'unico processo canonico basato non su scritti spirituali o teologici, ma su un catalogo di 135 dipinti. Del resto ad intuire che l'arte di Fra Angelico non poteva esser compresa se non alla luce della sua fede fu già il Vasari, suo primo biografo, che nelle "Vite" scrive: “Frate Giovanni Angelico da Fiesole, il quale fu al secolo chiamato Guido, essendo non meno stato eccellentissimo pittore e miniatore che ottimo religioso, merita per l'una e l'altra cagione, che di lui sia fatta honoratissima memoria.

Inoltre, nella chiesa domenicana di Santa Maria sopra la Minerva in Roma, il 18 febbraio 1984, lo stesso Papa, nel corso dell’omelia, disse :

« Con tutta la sua vita cantò la gloria di Dio, che egli portava come un tesoro nel profondo del suo cuore ed esprimeva nelle opere d’arte. Fra Angelico è rimasto nella memoria della Chiesa e nella storia della cultura come uno straordinario religioso-artista. Figlio spirituale di san Domenico, col pennello espresse la sua summa” dei misteri divini, come Tommaso d’Aquino la enunciò col linguaggio teologico. Nelle sue opere i colori e le forme “si prostrano verso il tempio santo di Dio” (Sal 138, 2), e proclamano un particolare rendimento di grazie al suo nome ».
E concluse l’omelia, dicendo : “... accogliendo le domande fatte dall’Ordine domenicano, da molti vescovi e da vari artisti, proclamo il Beato Angelico patrono presso Dio degli artisti, specialmente dei pittori. A gloria di Dio. Amen”.

Sir. 4, 12-13
12 Chi ama la sapienza ama la vita,
chi la cerca di buon mattino sarà ricolmo di gioia.
13Chi la possiede erediterà la gloria;
dovunque vada, il Signore lo benedirà.

Dai “Discorsi” di Pio XII, papa
L’uomo, nel mondo dell’Angelico, che è quello della verità, non è naturalmente né buono né santo; però può e deve divenirlo, essendo la santità facile e bella, poiché il Cristo, di cui tante volte egli mostra il sacrificio, è morto per questo fine, la sua santissima Madre ne è un eccelso esempio, i santi gioiscono per averla raggiunta, e gli Angeli si deliziano di vivere in conversazione con i santi.
Nelle virtù che egli propone, al fine di avvincere ad esse gli animi, non mette tanto in risalto lo sforzo nell’atto di conquistare, quanto la beatitudine che deriva dal loro possesso e la nobiltà di chi ne è rivestito.
Il mondo pittorico di fra Giovanni da Fiesole è bensì il mondo ideale, la cui aura è rifulgente di pace, di santità, di armonia e di gaudio, e la cui realtà è nel futuro, quando sulla nuova terra e nei nuovi cieli trionferà la giustizia finale; tuttavia questo soave e beato mondo può già fin da ora prendere vita nel segreto delle anime, e ad essere pertanto egli propone, invitandole ad entrarvi. In questo invito ci pare che consista il messaggio che l’Angelico consegna alla sua arte, fiducioso che sarebbe quanto mai adatta ad efficacemente diffonderlo.
È vero che nell’arte, per essere tale, non è richiesta un’esplicita missione etica o religiosa.  Essa, come linguaggio estetico dello spirito umano, se questo rispecchia nella sua verità totale, o almeno non lo deforma positivamente, è già di per sé sacra e religiosa, in quanto cioè è interprete di un’opera di Dio. Ma se anche il contenuto e le finalità saranno quelle che l’Angelico assegnò alla propria, allora assurgerà quasi alla dignità di ministro di Dio, riflettendone un maggior numero di perfezioni.
Questa eccelsa possibilità dell’arte noi vorremmo qui additare alla schiera, tanto da noi amata, degli artisti.
Nel tributare pertanto il nostro omaggio al sommo artista, e nell’invitare i nostri diletti figli ad accogliere, quasi disposto dalla Provvidenza, il messaggio religioso e umano di fra Giovanni, facciamo ardenti voti affinché il soffio della cristiana bontà, della serenità e dell’armonia divina, che si sprigiona dall’opera dell’Angelico, pervada i cuori di tutti.

Dalla liturgia
Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità.

Salmo 8

O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra:
sopra i cieli si innalza la tua magnificenza.
 Con la bocca dei bimbi e dei lattanti affermi la tua potenza contro i tuoi avversari,
per ridurre al silenzio nemici e ribelli.
Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissate,

che cosa è l`uomo perché te ne ricordi e il figlio dell`uomo perché te ne curi?
Eppure l`hai fatto poco meno degli angeli,
di gloria e di onore lo hai coronato:
gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,
tutto hai posto sotto i suoi piedi;
tutti i greggi e gli armenti,
tutte le bestie della campagna;
Gli uccelli del cielo e i pesci del mare,
che percorrono le vie del mare.
O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra.

sabato 16 febbraio 2013

AKATHISTOS ANTICO INNO ALLA MADRE DI DIO

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Quando le Chiese cristiane, romana e greca, erano ancora unite (sec. V), fu composto a Costantinopoli un inno mariano che tuttora viene cantato nei sabati di Quaresima presso varie comunità nel mondo, soprattutto orientale. E’ un inno da cantare in piedi, come è detto nel titolo, in segno di riverente ossequio alla Madre di Dio, il nostro Signore Gesù. Scritto in lingua greca, questo inno ebbe una versione latina nel sec. IX e alcune versioni nelle varie lingue locali nel secolo scorso.
L’inno AKATISTOS è composto da 24 stanze, o strofe, raccolte a due a due. Nella prima la preghiera è rivolta a Cristo, nella seconda alla Vergine Maria. Segue una specie di canto litanico elevato a Maria a nome di tutta la Chiesa.
Di queste 24 parti dell’inno ne scegliamo due, i nn. 16 e 17, per proporle come preghiera iniziando il cammino quaresimale.

Si stupirono gli Angeli
per l’evento sublime
della tua Incarnazione divina;
ché il Dio inaccessibile a tutti
vedevano fatto accessibile,
uomo,
dimorare fra noi
e da ognuno sentirsi acclamare:
Alleluia!

Gli oratori brillanti
come pesci son muti
per Te, Genitrice di Dio:
del tutto incapaci di dire
il modo in cui Vergine e Madre
Tu sei.
Ma noi che ammiriamo il mistero
Cantiamo con fede:

Ave, sacrario d’eterna Sapienza
Ave, tesoro di sua Provvidenza
Ave, Tu i dotti riveli ignoranti
Ave, Tu ai rètori imponi il silenzio
Ave, per Te sono stolti sottili dottori
Ave, per Te vengon meno autori di miti
Ave, di tutti i sofisti disgreghi le trame
Ave, Tu dei pescatori riempi le reti
Ave, ci innalzi da fonda ignoranza
Ave, per tutti sei faro di scienza
Ave, Tu barca di chi ama salvarsi
Ave, Tu porto a chi salpa alla Vita

Ave, Vergine e Sposa!

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giovedì 14 febbraio 2013

...Le virtù della Beata Imelda...Adorazione

Untitled Document adorazione
Nella Messa Gesù è il grande adoratore del Padre; noi adoriamo con lui. Anche rimanendo nel tabernacolo, Gesù è il grande adoratore che si fa voce silenziosa di tutta l’umanità. Nello stesso tempo noi adoriamo lui che è presente in modo invisibile, ma reale.
Le giornate di Imelda erano riempite da diverse occupazioni e anche per lei era limitato il tempo per stare davanti a Gesù. Essa certamente sapeva elevare a Dio la sua adorazione “in spirito e verità” (Gv 4, 24), ma appena poteva si affacciava alla porta della chiesa per un saluto a Gesù. Il tabernacolo era diventato il suo Cielo sulla terra.
Qual è il luogo dove io posso trovare l’Eucaristia? Gesù è lì tutto per me come se io fossi l’unica persona per la quale è presente e, nello stesso tempo, è presente a tutti quelli che lo cercano. So stare un po’ in silenzio davanti a Lui? Davanti alla grandezza di Dio il silenzio dell’adorazione è la lode più grande.

mercoledì 13 febbraio 2013

BEATO GIORDANO DI SASSONIA SACERDOTE (CIRCA 1176-1237)


Nessun altro divise con san Domenico il merito di aver tanto efficacemente diffuso e consolidato l’Ordine, come il beato Giordano. Nato a Burg-Berg , in Westfalia dagli Ehrnstein, conseguì il baccelierato in teologia e insegnò poi nell’università di Parigi come “magister artium”. Quando nell’estate del 1219 il Fondatore, di passaggio a Parigi, raccontò la prodigiosa guarigione e la vocazione di Reginaldo, il brillante docente fu conquiso dal programma dei Predicatori: povertà e apostolato. Ma Domenico volle che per il momento di Giordano ricevesse il diaconato; solo alcuni mesi dopo, su invito di Reginaldo giunto da Bologna, entra nell’Ordine di mercoledì delle Ceneri, 12 febbraio 1220, nel convento di Saint-Jacques. Nel maggio successivo lo troviamo al I Capitolo Generale di Bologna (probabilmente in qualità di definitore). Al II Capitolo Generale (maggio 1221) Domenico affida a Giordano il provincialato di Lombardia e l’anno seguente tutto l’Ordine si sceglie in lui il suo Capo. Intraprendente (si parla di 240  fondazioni e di un migliaio di novizi), gioviale, Giordano promosse con abilità la canonizzazione di Domenico interessando alla cosa Gregorio IX, già intimo del Santo.
Giordano fu presente alla prima apertura della tomba (notte tra il 23 e 24 maggio del 1233) e quando, a Strasburgo, apprese che il Pontefice aveva emanato da Rieti la bolla di canonizzazione (3 luglio 1234), inviò a tutto l’Ordine una lettera in cui riassumeva con traboccante gioia le fasi che avevano portato al riconoscimento ufficiale da parte della Chiesa. Oltre all’epistolario rivolto al monastero dei Sant’Agnese di Bologna (da lui inaugurato nel 1223) e altri scritti scolastici, Giordano ci ha lasciato la prima e più preziosa biografia del Santo, nel sul Libellus de principiis ordinis praedicatorum (redatto a Milano o a Bologna tra il 1233 e il 1234): equilibrio, profondità d’intuito, concisione, esattezza, il tutto lievitato da contenuta commozione. Partito alla volta della Terra Santa sulla fine del 1236, morì in un naufragio il 13 febbraio dell’anno successivo presso le coste della Siria.
Il corpo del beato recuperato dal mare, fu sepolto nel convento di San Giovanni d’Acri.
Leone XII il 10 maggio 1826 ne confermò il culto.
Al beato Giordano risale la consuetudine del canto, a Compieta, della Salve Regina. Egli sintetizzava così l’ideale domenicano “Vivere onestamente, imparare e insegnare”.
Il Capitolo Generale del 1955 lo ha indicato come patrono dell’opera delle vocazioni domenicane.

Dagli “Scritti” del beato Giordano di Sassonia, sacerdote.
Frattanto era giunto a Parigi fra Reginaldo, di felice memoria, e si era messo a predicare strenuamente. Prevenuto dalla grazia divina, io mi proposi e feci voto con me stesso di entrare nell’Ordine, convinto di aver trovata una via sicura di salvezza quale mi ero spesso immaginata in cuor mio prima ancora di conoscere i frati. Quando questo proposito si fu consolidato nel mio cuore, cominciai, evidentemente a fare ogni sforzo perché fra Enrico, compagno e amico dell’anima mia si decidesse a venire con me. Ero convinto che per i suoi doni di natura e di grazia, egli avrebbe fatto un’ottima riuscita nel ministero della predicazione.
Ma egli rifiutava; ed il non cessavo dall’insistere.
Quando giunse il giorno nel quale, con l’imposizione delle ceneri viene ricordata ai fedeli la loro origine e il loro ritorno in cenere, anche noi decidemmo, proprio in quella data così conveniente per iniziare una vita di penitenza, di adempiere al voto che avevamo fatto al Signore. Della cosa avevamo però lasciato all’oscuro i nostri compagni di pensione. Successe, perciò, che quando fra Enrico uscì di casa, uno dei nostri compagni gli chiedesse: “Dove andate, messer Enrico?”. “Vado a Betania”, rispose. Quello allora non comprese certo il significato di quella parola, ma lo comprese più tardi, dopo il fatto, quando seppe ch’egli era entrato a Betania, ossia nella casa dell’obbedienza.
Tutti e tre ci trovammo dunque a Saint Jacques e, al momento in cui i frati cantavano l’antifona “Immutemur habitu”, ecc., improvvisamente certo, ma opportunamente ci unimmo al loro gruppo. CI spogliammo subito dell’uomo vecchio e ci rivestimmo subito di quello nuovo, realizzando così su di noi coi fatti, ciò che essi cantando invitavano a fare.
Nell’anno del Signore 1220 si celebrò a Bologna il primo Capitolo Generale del nostro Ordine. Intervenni anch’io, mandato da Parigi con altri tre frati, in ossequio all’ordine comunicato per lettera da Maestro Domenico alla casa di Parigi, di inviare quattro rappresentanti al Capitolo di Bologna. Quando ricevetti questa missione, ero nell’ordine da non ancora due mesi.
In quel Capitolo, per comune consenso dei frati, fu stabilità che il Capitolo Generale si dovesse tenere alternativamente un anno a Bologna e l’altro a Parigi; quello dell’anno successivo si sarebbe però tenuto ugualmente a Bologna. Fu anche ordinato che i nostri frati non potessero più, in seguito, possedere fondi né percepire rendite, ma che dovessero rinunziare anche a quelli che già possedevano nel tolosano. Furono fatte anche molte altre leggi, che si osservano ancor oggi.
Nell’anno del Signore 1221, nel Capitolo Generale di Bologna, ai Capitolari parve opportuno di impormi la carica, che essi creavano per la prima volta, di Priore Provinciale di Lombardia. Io allora ero nell’Ordine da poco più di un anno e non avevo perciò radici così profonde quanto avrei dovuto, ora ero messo a governare gli altri, io che non avevno ancora imparato a governare la mia imperfezione. In quello stesso Capitolo si inviò in Inghilterra una comunità di frati, con fra  Gilberto in qualità di Priore. A quel Capitolo non ero presente.
Dopo aver terminato il racconto degli avvenimenti accaduti al tempo di Maestro Domenico e che era conveniente ricordare, proseguendo nella narrazione è bene ora far cenno di certi altri avvenimenti accaduti in seguito.
Morto fra Everardo a Losanna, io proseguii il mio viaggio e giunsi in Lombardia per assumervi l’ufficio che mi era stato imposto nei riguardi di quella provincia. C’era in quel tempo un certo fra Bernardo di Bologna, il quale veniva talmente tormentato da un crudele demonio da cui era posseduto, che giorno e notte veniva agitato da orribili incubi; e così tutta la comunità dei frati ne veniva disturbata. Senza dubbio la Divina Provvidenza aveva mandato questa tribolazione per provare la pazienza dei suoi servi.
Questa tremenda vessazione del sunnominato fra Bernardo, fu la causa principale che ci spinse a istituire a Bologna il canto dell’antifona Salve Regina, dopo Compieta. Da questa casa l’uso si estese a tutta la Provincia di Lombardia e infine la pia e salutare usanza si affermò in tutto l’Ordine.
A quanti, questa santa lode della veneranda madre di Cristo, fece versare lacrime di devozione! Quante volte essa commosse gli affetti di chi l’ascoltava o di chi la cantava, intenerendo la durezza dei loro cuori e infiammandola di santo ardore! E non crediamo che la madre del nostro Redentore si diletti di tali lodi, si commuova per tali preghiere? Mi riferì un uomo religioso e degno di fede di aver visto spesso in  visione, al momento in cui i frati cantavano Eia ergo advocata nostra, la madre del Signore in persona, nell’atto d’inginocchiarsi davanti a suo Figlio, per impetrare da lui la conservazione di tutto l’Ordine. E anche questo fatto ho voluto ricordare, affinché la devozione dei frati che lo leggeranno s’infiammi sempre più nella lode della Vergine. 

  1 Cor. 1,17-18
17Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma ad annunciare il Vangelo, non con sapienza di parola, perché non venga resa vana la croce di Cristo.
18La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio.


Dalla liturgia:
Parlava ed annunziava il Signore Gesù e la mano del Signore era con lui.

martedì 12 febbraio 2013

A BRACCETTO CON IL MALE, 23-24 FEBBRAIO

Il prossimo incontro GDI sarà un po' particolare.
Sabato 23 si partirà da Villa Imelda verso Febbio, località sciistica reggiana per passare in amicizia una giornata sulla neve con i ragazzi dell'UNITALSI di Reggio Emilia.

A sera si rientrerà a Villa Imelda per proseguire continuare l'incontro domenica 
con Edith e la Strega Karabà.

Vi aspettiamo numerosi!

PS: è gradita conferma per poterci organizzare al meglio nel trasporto
Sr Lorenza: 3489899852
Laura: 3472632556
giovani@domenicaneimeldine.it


Per Incanto e per amore

Con Maria, anche noi dobbiamo dire al Signore: Fecit mihi magna qui potens est, colui che è potente fa per me cose grandi ogni momento. E dobbiamo lasciarci prendere dallo stupore. [...]

Non so se stupirmi di più del fluire dell'acqua del Gave o del fluire interminabile delle persone davanti alla grotta di Lourdes. Quanta gente, quanto stupore! Abbiamo visto il pianto sul ciglio di tante persone, abbiamo visto che Dio fa delle meraviglie, compie cose nuove. Ebbene, noi dovremmo stupirci di più del nostro Dio, che è un Dio nuovo, che non ci ha abbandonati come fa il vasaio o lo scultore quando un bozzetto non riesce e l'accantona. Il Signore fa sempre cose nuove per noi. Non le ha fatte soltanto in questi giorni ma le fa ogni giorno e noi dobbiamo stupirci di più. Senza stupore è impossibile l'adorazione, senza rapimenti estatici è difficile la preghiera. Con Dio si potrà avere forse un rapporto «mercantile», basato sulla contrattazione «domanda e offerta», ma non sarà preghiera, non sarà abbandono fiduciale.

La meraviglia è la base dell'adorazione, ha scritto qualcuno. Senza meraviglia non si può adorare Dio. Senza avere coscienza che ci troviamo di fronte a uno che fa continuamente nuove tutte le cose, quindi anche questa nostra anima vecchia, questo nostro cuore antico, senza questa convinzione non possiamo adorare in profondità. Impariamo perciò a stupirci.

Tonino Bello

Ricordiamo affettuosamente anche la Congregazione che proprio ieri era doppiamente in festa per l'anniversario del primo tabernacolo.

Facciamo delle parole di questo canto una preghiera a te, Maria, perchè come per incanto e per amore, sappiamo sempre meravigliarci dell'amore che c'è nella nostra vita, sul tuo esempio, col tuo aiuto.

"Per incanto e per amore"

Fa' che il tempo di un uomo non sia
un istante e poi via
che non lascia mai niente di sé
nella storia di tutta la povera gente
e che un timido abbraccio non sia
solo un frutto d'inverno
ma un seme d'eterno
fa' che sia così
come un canto del cuore
come per incanto e per amore

Fa' che il senso di un uomo non sia

la paura di amare o la scia
di una barca legata
che non prende il mare
e che questa già vecchia ribelle speranza non sia
più l'assurda distanza
tra gli occhi e le stelle
fa' che sia così

come un canto del cuore
come per incanto e per amore

Fa' che il viaggio di un uomo non sia
la bugia di una meta
ma la verità della strada
che è lunga e segreta
e che un pugno di riso non sia
solo un altro abbandono
ma almeno la via di un sorriso e un perdono
fa' che sia così

per incanto e per amore

fa' che il cielo dì un uomo non sia
questa notte infinita
ma un'alba di vita
su tutta la terra
e che l'ultima guerra è finita
in un mondo con meno ingiustizia
capace di un gesto di pace e amicizia
fa' che sia così

come un canto del cuore
come per incanto e per amore

fa' che il tuo prossimo sia
non soltanto chi ti è accanto
ma anche il prossimo che verrà qui
per incanto fa' che sia così
per amore fa' che sia così!

BEATO REGINALDO D’ORLEANS sacerdote (1180 circa -1220)

Professore di Diritto all’università di Parigi e decano della collegiata di Saint-Aignan, Reginaldo di Sanit-Gilles scese nel 1218 al seguito del vescovo di Orléans a Roma per recarsi in Terra Santa. Nella Città eterna venne in contatto col cardinale Ugolino (futuro Gregorio IX) e, tramite questi, con san Domenico. Il messaggio di povertà evangelica realizzato cos’ integralmente nel nuovo Ordine dei Predicatori ebbe profonde ripercussioni sull’animo insoddisfatto di Reginaldo; uomo dall’intelligenza aperta ai problemi religiosi del suo tempo e del suo paese (la Francia meridionale); egli avvertiva con un certo rimorso lo stridente contrasto tra la sua raffinata vita, tra la sua attività amministrativa e l’accorato appello lanciato alcuni anni prima (1215) dal IV Concilio Lateranense.

A Roma il brillante decano di Saint-Aignan cadde ammalato e fu sul punto di morire. Prima la visita di san Domenico (Che “lo invita a seguire la povertà di Cristo ed a entrare nell’Ordine”), poi la guarigione e la miracolosa apparizione della Vergine (“che gli mostrò l’abito completo dell’Ordine”) vinsero ogni resistenza. Reginaldo promise che, ritornato dalla Palestina, avrebbe militato tra i Predicatori.


Nel dicembre 1218, infatti, Domenico lo inviava a Bologna come suo vicario. Reginaldo, pienamente a suo agio in quella città studentesca, trasferì la comunità primitiva a San Niccolò delle Vigne e attrasse all’Ordine col fascino irresistibile della sua eloquenza allievi e docenti universitari. Ma un altro convento stava attraversando momenti diffiicli: Saint-Jacques di Parigi. E sul finire del 1219 Reginaldo, per ordine del Fondatore, parte per quella nuova missione.

Si ripete il fenomeno di Bologna: la comunità domenicana, prima quasi sconosciuta, assurge immediatamente a grande notorietà e la calda eloquenza dell’ex-professore induce a entrare nell’Ordine elementi qualificati. Ma a poche settimane dal suo arrivo a Parigi, verso il 12 febbraio 1220, Reginaldo muore. La notizia lascia affranto il Fondatore; soltanto lo consola sapere che Reginaldo (entrato nell’Ordine nemmeno da due anni) è morto col sorriso sulle labbra, ripetendo la sua gioia di aver abbracciato la povertà degli Apostoli.

A un confratello che gli aveva chiesto un giorno se gli fosse costato sottoporsi all’austera disciplina dell’Ordine, aveva risposto umilmente “Credo di non essermi fatto alcun merito vivendo in quest’Ordine, perché vi ho sempre trovato troppa gioia”. E della predicazione di lui, il beato Giordano scrisse: “La sua eloquenza era infuocata e la sua parola, come fiaccola ardente, infiammava l’animo degli ascoltatori; ben pochi avevano il cuore così indurito da resistere al calore di quel fuoco. Pareva un secondo Elia”. Reginaldo fu sepolto a Parigi nel cimitero benedettino di Notre-Dame-des-Champs. Fu beatificato da Pio IX nel 1875.

Mt. 19, 29

29Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna.

Dagli “Scritti” del beato Giordano di Sassonia
Nell’anno 1218, mentre Maestro Domenico era a Roma, vi giunse, in procinto di passare il mare, il Decano di Saint-Aignan d’Orléans, Maestro Reginaldo. Era un uomo molto conosciuto, dotto e illustre per gli incarichi occupati; fra l’altro aveva retto per cinque anni al Parigi la Cattedra di Diritto Canonico. Orbene, costui, giunto a Roma, cadde gravemente ammalato. Maestro Domenico andò alcune volte a trovarlo; e quando lo esortò ad abbracciare la povertà di Cristo e a entrare nel suo Ordine, ne ebbe libero e pieno consenso: Reginaldo si obbligò anzi con voto.
Egli guarì da quella gravissima mortale malattia, ma non senza l’intervento di un miracolo divino. Infatti, mentre bruciava per la febbre, venne da lui in forma visibile la Regina del Cielo e Madre della Misericordia, la Vergine Maria che, ungendogli gli occhi, le narici, le orecchie, la bocca, le reni, le mani e i piedi con un unguento salutare che aveva portato con sé, aggiunse queste parole: “Ungo i tuoi piedi con l’olio santo, affinché essi siano pronti per annunciare il Vangelo di pace”. Inoltre gli mostrò l’abito intero del nostro Ordine.
Subito egli si sentì guarito e inaspettatamente ristabilito in tutte le sue forze, sicché i medici, che avevano disperato di salvarlo, constata la sua guarigione, ne rimasero stupefatti.
Questo strepitoso miracolo fu narrato in seguito da Maestro Domenico a molti che sono ancora vivi; e una volta a Parigi, mentre lo raccontava in una conferenza spirituale alla presenza di molti, ero presente anch’io.
Dopo avere così riacquistata la salute, Maestro Reginaldo, nonostante fosse già legato all’Ordine con professione, volle compiere il suo progetto di passare il mare. Al ritorno, venne a Bologna il 21 dicembre e si diede subito totalmente alla predicazione. La sua eloquenza sembrava un fuoco violento e la sua parola, come fiaccola ardente, infiammava il cuore di tutti gli ascoltatori: non c’era persona che fosse talmente di sasso da poter resistere al suo calore. Bologna tutta intera era allora in effervescenza, perché sembrava che un nuovo Elia fosse sorto.
In quei giorni egli ricevette nell’Ordine molti bolognesi e il numero dei discepoli comincià a crescere e molti altri ancora si aggiunsero al loro numero.
Quando poi fra Reginaldo, di santa memoria, giunse a Parigi, con infaticabile zelo si mise subito a predicare, con la parola e con l’esempio, Gesù Crocifisso. Ma il Signore lo tolse presto da questa terra. Giunto al suo termine, compì in breve tempo una lunga carriera. Dopo poco tempo cadde, infatti, ammalato , giunto a morte, si addormentò nel Signore volandosene verso le ricchezze della gloria della casa di Dio, lui, che da vivo, si era sempre dimostrato amante risoluto della povertà e del nascondimento.
Fu sepolto nella chiesa di Notre-Dame-des-Champs, dato che i frati non avevano ancora un luogo proprio per la sepoltura.
Mi viene ora in mente che, quando ancora vivo, una volta fra Matteo che lo aveva conosciuto fra gli onori e le comodità del mondo, gli domandò pieno di meraviglia: “Per caso, non provate qualche rimpianto, Maestro, per aver preso quest’abito?”. E lui abbassando la testa, rispose: “Io credo di non essermi fatto alcun merito vivendo in quest’Ordine, perché vi ho sempre trovato troppa gioia”.

Dalla liturgia:
La semente è la parola di Dio,
il seminatore è Cristo;
chi lo ascolta vivrà in eterno.