giovedì 31 ottobre 2013

PRESENZA REALE E ADORAZIONE



Nel capitolo precedente P. Pierre Claverie aveva approfondito il momento dell'istituzione dell'Eucaristia, il memoriale della Pasqua di Gesù: il pane e il vino diventano il segno della sua presenza reale, con la potenza della risurrezione. Ma è presente anche nell'Assemblea che sta celebrando e che, grazie allo Spirito, è “corpo stesso di Cristo nella storia” ed è dall’incontro tra Assemblea e i segni del pane e del vino che si realizza concretamente la Presenza reale.
“È importante sottolineare innanzitutto che il corpo eu­caristico non diviene Presenza reale del Cristo risuscitato se non in e mediante il corpo ecclesiale, questo corpo dei di­scepoli, abitato dallo Spirito di Dio per essere la prefigura­zione del suo Regno d'amore. Bisogna dunque entrare nel mondo sacramentale perché la trasformazione avvenga: non si tratta soltanto del pane e del vino che divengono Presenza reale di Gesù risuscitato, corpo e sangue di Cri­sto, bensì dell’assemblea tutt’intera che riceve lo Spirito e fa corpo di Cristo.”
Fuori dal contesto di un’Eucaristia celebrata insieme, non succede nulla se si ripetono le stesse parole su del pane e del vino. All’origine della Chiesa, il termine “corpo di Cristo” indicava l’insieme dei credenti e non il pane consacrato: il popolo di Dio era “il vero corpo di Cristo”, l’ostia “il corpo mistico o sacramentale”.
“Nello stesso senso, per i primi cristiani il termine comunione evocava la Chiesa che lo Spirito man­teneva nell'unità dell'amore: avveniva che, per significarlo, «per manifestare che si era in comunione con le altre co­munità cristiane, s'inviava un legato, generalmente un ve­scovo che, come pegno dell'affetto per questa Chiesa lonta­na, portava con sé un pane consacrato che sarebbe stato aggiunto all'eucaristia locale del paese in cui era stato in­viato». La comunione era dunque la «comune unione» del­la Chiesa in crescita.”
Pane e vino sono “segni..e non la realtà a cui conducono e che realizzano”: sono segni di una Presenza che riempie tutto l’universo (Dio non può essere racchiuso in un luogo definito). Come per ogni presenza umana: “non è legata a luoghi, a descrizioni esteriori, a definizioni. Essa è riconoscibile nella relazione personale e mediante «segni che interpel­lano» e ci rendono presenti gli uni agli altri. Non si è pre­senti in un posto come una sedia: ci si rende presenti mediante un segno, che è un invito a entrare in relazione.”
Si diventa segno per gli altri: così Gesù con noi. Attraverso il pane e il vino si rende segno, ossia ci invita ad entrare in relazione con Lui così come siamo. “Facciamo corpo con lui ed egli prende corpo in noi.”
L’adorazione dell’Eucaristia è un modo di entrare in relazione con il Signore, ma appunto “la Chiesa ha sempre sostenuto fer­mamente che il pane, anche esposto all'adorazione, è de­stinato alla condivisione e che là risiede il suo significato; per mezzo di questo pane Gesù c’invita a essere tutt’uno con lui, a entrare con lui nella sua intenzione espressa al­la vigilia della sua passione e a comunicare fra noi mediante la nostra partecipazione a quest’intenzione di dona­re la sua vita.”
Cristo ci chiede di donare la nostra vita per amore, di uscire da noi stessi per andare a Lui, “per adorarlo e servirlo non solamente in una processione di comunione, ma anche nell'incontro quoti­diano che egli ci propone. Perché, ancora una volta, l'eucaristia è una chiamata per tutta la vita e se essa ci spinge ad assumere certi com­portamenti, è perché noi vi restiamo fedeli una volta ter­minata la celebrazione. Sacramento e vita non sono da se­parare, perché il sacramento ha il compito di plasmare la vita, di realizzare il Regno nella vita. Per mezzo dell'euca­ristia siamo chiamati, da una parte, a divenire nel mondo presenza, corpo di Cristo – con il suo Spirito d'amore – e, d'altra parte, a spezzare il pane dell'amore per tutti, a con­dividerlo con tutti e particolarmente con gli affamati. Per­ché l'ultima cena di Gesù ci ricorda anche gli altri suoi pa­sti nel corso dei quali ha spezzato il pane: a casa dei pub­blicani e dei peccatori, per la folla affamata e senza pasto­re che lo seguiva nel deserto. Il corpo risuscitato di Gesù ci interpella, ci fa segno nel pane e in tutti quelli che hanno fame del pane dell'amore.”

lunedì 28 ottobre 2013

Convocati dalla Misericordia

Oggi, vediamo il convento come una struttura esteriore che accoglie le nostre comunità religiose. Per S. Domenico e i primi domenicani, come lo nota una scrittrice domenicana, il convento era anzitutto uno stile di vita, un sogno. Mentre il monastero sottolinea la dimensione di solitudine, da monos, solo, il convento sottolinea quella dell’essere convocati, del riunirsi.

I primi conventi domenicani nascono in mezzo alle città, come parte di esse. E’ tutto un modo di relazionarsi alla storia che la scelta di questi siti esprimono: il desiderio di abitare la storia con gli altri, il desiderio di uno spazio più grande per incontrarsi.

Il convento è luogo, non solo fisico ma del cuore, dove ci si riunisce venendo dal di fuori. E’ dunque una realtà aperta nella quale si può entrare, alla quale si può tornare, sentendosi convocati e, soprattutto, all’interno della quale ci si incontra con altri. E’ uno spazio per legarci con gli altri. Domenico chiedeva ai suoi fratelli di essere sempre e ovunque comunitari cioè sempre e ovunque con gli altri, aperti agli altri. Ciò significa più che altro adottare uno stile di vita che si presta all’incontro, che dà voglia agli altri di lasciarsi convocare, dunque che fa gustare l’essere insieme.

Il convento, nella tradizione domenicana, non è lo spazio della perfezione ma della misericordia. E’ questo che ogni frate, ogni suora chiede al momento della professione nell’Ordine. La misericordia, non è un sentimento di pietà verso chi ha sbagliato ma una profonda tenerezza che muove dal profondo, come l’amore travaglia una madre, un padre; che ci rende parte gli uni degli altri. Il convento è “vita di desiderio e di sogni da condividere”. In questo modo, e soltanto così, diventa spazio di conversione, di liberazione e custodia della fedeltà alla chiamata di Dio.


Riflessioni tratte da Antonietta Potente: Molta gioia. La spiritualità domenicana come stile di vita quotidiana, Icone 2005-

domenica 27 ottobre 2013

Arbitrio del Tu

Per il Vangelo di questa domenica vi suggerisco la lettura di un testo di Erri De Luca. Non propone un commento a questo passo del Vangelo di Luca, ma a me ha fatto tanto venire in mente quel pubblicano che da del "Tu" a Dio e continuamente si mette in discussione.

"Da lettore assiduo di scrittura sacra frequento l'ebraico antico delle prime storie, dei profeti, dei salmi raccolti nell'Antico Testamento. L'usanza quotidiana non ha fatto di me un credente. la mia esperienza di lettore accampato fuori dalle mura dipende, per me, da due inciampi.
Il primo è la preghiera, questa potenza e possibilità del credente di rivolgersi. Dare il "tu" a Dio, con le variazioni che stanno tra l'imprecazione e la supplica è l'arbitro meraviglioso della creatura che risale alla sua origine e l'interroga, la chiama, la scuote dalla sua distanza. Chi ha esclamato per la prima volta la prima preghiera non può averla inventata. Può solo aver reagito a una chiamata con una risposta, come Abramo con suo "hinnèni", eccomi. Eccomi è la prima parola, la premessa di ogni preghiera. La creatura si separa dal resto della specie e del creato, si esclude per stabilire la relazione. La preghiera avviene sempre in un'estremità del campo. Si legge nel salmo 78: " E li condusse al suo confine santo" (Sal 78,54). Dio porta gli ebrei nel deserto, perchè quello è il luogo dell'incontro. Non li chiama in un centro, in una piazza, ma nell'isolamento inospitale del vento e della polvere. Nel deserto: questo è il luogo fisico della preghiera. Il credente fa il vuoto intorno a sè e così fa avvenire l'incontro.
Leggo nel verso del salmo un doppio spostamento: quello del popolo che segue la via maestra del deserto e quello di Dio che si sposta anche lui per andare. Ha rinunciato a essere dappertutto per far posto alla creatura e al creato, perciò anche lui deve raggiungere il confine per incontrare i suoi. Il silenzio di Dio è il suo ascolto, chi prega lo raggiunge.
Non lo so fare, non so rivolgermi. Forse uno come me si accanisce nella scrittura proprio perchè non sa rivolgersi nemmeno agli altri e riduce lo scambio a questo crampo della mano, al saliscendi di una penna che traccia lettere su un foglio. Fingo che sia la mia voce, l'impulso di suscitare un sorriso, un'intesa, un affetto. Non so rivolgermi, non so il pronome della preghiera. Pratico il surrogato "tu" della scrittura.
Parlo di Dio in terza persona, leggo di lui, sento parlare di lui e sento vivere altri di lui (chiedo di lasciarmi il carattere minuscolo di "lui". Chi non crede non ha il diritto di usare la maiuscola). I volontari cattolici che per cinque anni mi hanno portato con loro come autista di convogli di aiuti in Bosnia, vivono di quel "lui". Presso di loro mi accorgo, sperimento questa dedica semplice, questo oriente che tutela anche quando affanna. Scrivo queste parole alla loro ombra. Parlo di Dio in terza persona perchè leggo il suo nome nelle storie sacre, tutti i giorni. Sono un testimone indiretto: vedo le parole dell'Antico Testamento non riducibili a opera di autori vari, vedo le vite degli amici cattolici non riducibili a una loro buona indole o volontà, ma scavate da un'impronta digitale. Con tutto questo, rimango uno che parla di Dio in terza persona. Il mio piede urta ogni giorno in questa pietra della preghiera, non la può scavalcare, perchè la preghiera è la soglia.
L'altro inciampo è il perdono. Non so perdonare e non posso ammettere di essere perdonato. E' bestemmia per il credente, per lui non c'è colpa che non possa essere sollevata da Dio. Rabbi Nachman di Bretslaw stabiliva che il pentimento non era un impulso di distacco, lo slancio che fa staccare il tuffatore dalla sporgenza, ma il sentimento per il quale uno si trova davanti all'errore, al torto e per a prima volta non vi ricade, non lo ricommette. Nachman dice che il pentimento è un progetto che riguarda il futuro, più che il rammarico rivolto al passato.
Se non mi capiterà di ripetere un torto, sarà per lo scarto del tempo, per l'età che si fa adulta e accumula stanchezza, che è una saggezza secondaria, non per un pentimento. Nella mia vita c'è una soglia dell'imperdonabile, del non più riparabile. Non posso ammettere di essere perdonato, non so perdonare quello che è commesso. Ecco le mie pietre di inciampo per le quali resto fuori dalla comunità dei credenti.
Leggo le storie sacre, ne ricevo l'immensità di un senso anche restando alla superficie delle parole. Già il primo verso del salmo letto stamattina: Shomreni El ki hasìti bac, "Custodiscimi El perchè ho fatto rifugio in te" (Sal 16,1): quale privilegio assoluto sta nella voce di Davide che dichiara di essersi messo al riparo di dio. Come può saperlo? Come può credere che il suo intento di rifugiarsi sia stato esaudito? Eppure è così, la sua volontà di compie per il solo fatto di aver fede. Può dire senza presunzione: "Ho fatto rifugio in te".
E prima ancora di questo, usa con Dio non la preghiera ma il modo verbale all'imperativo: custodiscimi. E' un ordine. Davide è re, condottiero di soldati, sa cosa è un ordine. Lo rivolge a Dio come prima parabola del suo salmo. Ecco, già il primo verso del giorno mi sbaraglia col suo solo senso letterale: per la forza naturale, l'impeto di questo rivolgersi a Dio, una febbre della necessità che non so leggere senza vacillare sul trespolo di pappagallo da cui scruto il libro.
Così le storie sacre tengono compagnia a un lettore. Posso dire di essere un molestatore di quelle parole, di non lasciarle in pace, di tornare indietro da loro con un pugno di cenere calda. Chiunque abbia fede trova invece in quelle pagine la materia di cui è fatto il roveto ardente di Mosè, che arde senza residui di combustione, senza consumarsi."
Erri De Luca, Nocciolo d'oliva

Per chi desidera leggere un commento sul testo suggerisco questo commento di P. Ermes Ronchi

SALMO 2

E’ un salmo difficile da approfondire, ma è uno dei più celebri del salterio. Ne parlano numerosi Padri della Chiesa e vedono in esso un riferimento al futuro Messia.
Il salmo 2 appartiene ai salmi regali, forse usato per l’intronizzazione di un Re d’Israele, alludendo anche a un faticoso interregno. Questi salmi regali, visti in una dimensione universale, diventano immagine e annuncio del re ideale del futuro.

Il salmo inizia con un preludio di stupore, e contiene metafore che riferiscono a Dio atteggiamenti umani (il ridere, l’ira, il furore). Il “riso” di Dio, assiso in trono, è espressione di superiorità.
Il vero protagonista non è tanto il re ma “il Signore” (Dio), la rivolta non è tanto un conflitto politico-militare ma uno scontro assurdo tra il bene e il male.

Il legame tra il Signore e il re discendente di Davide (il Messia) è uno dei tanti segni dell’”incarnazione” di Dio, della sua rivelazione attraverso la storia.
C’è un decreto del Signore per il re, che parla di lui come di “figlio generato”.


Perché le genti congiurano 
perché invano cospirano i popoli? 
Insorgono i re della terra 
e i principi congiurano insieme 
contro il Signore e contro il suo Messia: 
"Spezziamo le loro catene, 
gettiamo via i loro legami". 


Se ne ride chi abita i cieli, 
li schernisce dall'alto il Signore. 
Egli parla loro con ira, 
li spaventa nel suo sdegno: 
"Io l'ho costituito mio sovrano 
sul Sion mio santo monte". 


Annunzierò il decreto del Signore. 
Egli mi ha detto: "Tu sei mio figlio, 
io oggi ti ho generato. 
Chiedi a me, ti darò in possesso le genti 
e in dominio i confini della terra. 
Le spezzerai con scettro di ferro, 
come vasi di argilla le frantumerai". 



E ora, sovrani, siate saggi 
istruitevi, giudici della terra; 
servite Dio con timore 
e con tremore esultate; 
che non si sdegni e voi perdiate la via. 
Improvvisa divampa la sua ira. 
Beato chi in lui si rifugia. 

giovedì 24 ottobre 2013

LA NOSTRA PASQUA QUOTIDIANA



Noi facciamo memoria della Pasqua di Cristo e la viviamo oggi con lui. Fare memoria della Pasqua di Gesù, che prende su di sé la violenza del mondo per condurla alle sorgenti dell’amore, c’impegna nello stesso movimento perché regnino la vita e l’amore.

Continuando ad approfondire la Preghiera Eucaristica, P. Claverie si sofferma sul racconto dell’istituzione dell’Eucaristia: dopo l’invocazione allo Spirito Santo e attraverso l’offerta della nostra fede, si è costituita la Chiesa che compie ora il memoriale di Gesù.
“Il memoriale non è solamente la pia rievocazione della presenza e dell'azione di Gesù Cristo, vissuto duemila an­ni fa (..). Già nell'Antico Testamento, quando gli ebrei fanno memoria dell'uscita dall'Egitto (..), hanno coscienza di «viverlo og­gi». Essi lo rappresentano ogni anno perché gli atti di Dio non sono per un giorno, ma sono contemporanei di ogni istante della vita degli uomini. Dio non fa la tale cosa per non pensarci più in seguito: egli è ciò che fa; egli fa ciò che è ed egli è oggi. Ha salvato perché è Salvatore per sempre, presente alla sua creazione oggi come da sempre, con la sua volontà di salvezza che è in atto e che abbiamo chia­mata amore”.
Quando l’uomo si avvicina a Dio, partecipa perciò a tutta la storia di salvezza: la passione e la risurrezione di Gesù, avvenute in un dato momento storico, sono la manifestazione della volontà salvifica di Dio da tutta l’eternità, il segno che in Lui oggi e sempre la morte e la schiavitù sono definitivamente abolite.
“(Gesù)Vuole trascinare la morte nel mondo della vita, nel regno di Dio, dove essa non avrà più potere: egli la prende su di sé, la ‘intrappola’ per poterla meglio annientare; si lega ad essa volontariamente, «prendendo su di sé il peccato del mondo».. Si può dire che Gesù si abbandona lui stesso alla morte, che si fa vittima inno­cente non della collera di Dio ma della cecità degli uomini, che hanno consegnato se stessi al potere della morte. Egli muore sia per aprire loro gli occhi sia per manifestare che intende vincere la morte mediante l'amore, trascinandola nel Regno dell’amore.
Ed è quello che ha vissuto giorno dopo giorno: tutta la vita di Gesù, abitata dalla potenza dell’amore, che crea e libera, è stata una continua vittoria dell’amore sulla morte; è per amore che “libera” e guarisce gli ammalati, che ridona dignità e pace a chi era disprezzato..
“E, sempre per mezzo dell’amore, egli libera i credenti dal potere dei riti e della Legge religiosa («E’ la misericordia che io voglio e non i sacrifici», «Il sabato è fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato») assumendo un atteggiamento nuovo di fron­te ai farisei e agli scribi. E il potere dell’amore gli deriva dalla sua fiducia totale nel Padre e dal suo abbandono interiore alla sua volontà. Egli è totalmente donato al Padre, dona­to agli altri: è «morto a se stesso», non ha desiderio né am­bizione per sé, è già «offerto in sacrificio» perché offre con­tinuamente la propria vita.”
Ma questo non toglie a Gesù la sofferenza fisica e la sofferenza morale di essere “solo” negli ultimi istanti della sua vita: dovrà vivere l’estremo “sradicamento”, affidarsi davvero e completamente all’amore del Padre, rinunciando alla tentazione di “contare sui suoi” per “abbandonarsi a mani nude e rovesciare così il potere con l'arma della debolezza, la violenza con la dol­cezza, l'odio con il perdono, il disprezzo con la misericor­dia...”.
Spesso anche noi oggi ci troviamo nella stessa situazione e fatichiamo a credere “che la potenza dello Spirito d'amore sia veramente la sola fecon­da; che l'Amore con la sua apparente debolezza sia veramente una forza di vita; che il Padre di Gesù Cristo meri­ti la nostra totale fiducia e il nostro abbandono senza riserve alla sua parola; che Gesù Cristo sia veramente l'Uomo nuovo e che seguirlo sia entrare nella vita eterna.”
Fare memoria della Pasqua di Gesù è per noi riprendere continuamente il cammino dell’Amore, offrire anche noi, in una Pasqua quotidiana, la nostra vita perché diventi «sacramento di liberazione per i nostri fratelli».
Perché la Pasqua si compie nella nostra vita quotidiana com’essa era nel cuore della vita quotidiana di Ge­sù, con la sua lotta contro la tentazione messianica, il do­loroso distacco da se stesso, il suo atto di fiducia nei con­fronti del Padre e la sua maniera di sovvertire il mondo con l'onnipotenza dell'Amore. Il passaggio che noi siamo chiamati a compiere, lo facciamo con il mondo che ci cir­conda e al quale siamo legati da mille vincoli. Sacramento di liberazione e di riconciliazione possiamo diventarlo solo se accettiamo di donare la nostra vita alla sequela di Gesù Cristo.”


martedì 22 ottobre 2013

VITA COMUNE – Una responsabilità

La vita comune non è soltanto un dono: è anche un impegno, una responsabilità personale che condividiamo con i membri della comunità.

I valori della vita fraterna domenicana possono essere riassunti nella parola amicizia. L’amicizia comunitaria è più che un gruppo di buoni amici. Ha il senso che gli dava Gesù quando diceva: “Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi.” (Gv 15, 15). È un’amicizia dove condividiamo i segreti di Dio che per S. Domenico sono soprattutto la sua misericordia e la sua parola.

La parola e la misericordia ci fanno uguali. Uguali perché, tutti peccatori, deboli viviamo per la misericordia di Dio e degli altri; uguali perché tutti figli dello stesso Padre il quale ci affida la sua Parola. Questi grandi valori diventano realmente responsabilità quando non sono più idee ma vita concreta. Bisogna imparare la misericordia per vivere in comunità. Tanti hanno abbandonato la vita religiosa o la Chiesa perché non sopportavano i peccati degli altri, o i propri peccati. Ci vuole coraggio per vivere con i peccatori, soprattutto perché lo siamo noi, per primi. La misericordia ci fa condividere l’amore che Dio ha per noi tutti e così troviamo la pace e diamo la pace, dal momento che ci riconosciamo deboli ma amati.


Bisogna imparare anche a condividere la Parola: la parola di Dio ascoltata, meditata, celebrata. Non si può vivere in comunità se non si celebra; lì inizia il nostro predicare, nella condivisione del proprio cammino di crescita, come si fa davvero tra amici. Condividere la parola significa anche dare la possibilità all’altro di parlare e di ascoltare. Fra’ Bruno Cadoré, Maestro dell’Ordine, ricordava che siamo l’Ordine dei Predicatori, al servizio del dialogo tra Dio e l’umanità, e questo servizio inizia in comunità nel dare un peso uguale alla parola di tutti i suoi membri. La comunità domenicana esiste dove crediamo di aver ricevuto la grazia per vivere questi ideali tanto da impegnarci quotidianamente perché essi siano i nostri tratti distintivi.

domenica 20 ottobre 2013

La giustizia come preghiera incessante!



Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai:
«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”.
Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”».
E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
La storia raccontata oggi da Gesù inizia dicendo che è necessario pregare  sempre, senza stancarsi ed è sicuramente una chiave di lettura di quanto poi segue in quanto ci mette nell'atteggiamento di chi, saggiamente, considera gli avvenimenti meditandoli e offrendoli, non giudicandoli a caldo, ma con atteggiamento di chi vuole conoscere la bontà che c'è in ogni azione. 

Ma.. mi ha colpito un altro aspetto e su questo vorrei fermarmi un po’. Ritorna più volte nel Vangelo di oggi il tema della “giustizia”: “..fammi giustizia.. le farò giustizia.. Dio non farà giustizia?.. farà loro giustizia..”. Si parla anche di un giudice, che è lì per fare giustizia, ma che è disonesto e non ha rispetto per nessuno. In questo consiste il suo non essere “giusto”, poichè il rispetto appartiene ai giusti. Si parla anche di una vedova, una donna appartenente a una categoria che a quel tempo era lasciata il più delle volte “senza giustizia”.

Dunque, come può, chi non è giusto, fare giustizia? Ma ancor prima, cos’è la giustizia, che tanto cerchiamo, che consideriamo un diritto, per la quale soffriamo quando ci manca, per cui tanti hanno lottato e lottano ancora oggi? Aristotele considera la giustizia come la virtù che distribuisce a ciascuno ciò che gli spetta. Concretamente cosa vuol dire nella mia vita " distribuire a ciascuno ciò che gli spetta?". Quali atteggiamenti appartengono alla giustizia e quali no?
Dare a ciascuno ciò che gli spetta innanzitutto credo voglia dire dare ad ogni persona il rispetto che gli è dovuto in quanto tale, in quanto persona. Questo implica dare l’attenzione necessaria a ciascuno, dare ascolto, dare amore, dare perdono... vuol dire alzarsi dalle sedie che occupiamo tutto il giorno per conoscere gli altri, "perdere" anche solo 10 minuti per metterci in discussione di fronte al mistero e alla dignità di ciascuno, vuol dire non dimenticarsi di togliersi i sandali, perchè la terra che stiamo calpestando è Santa agli occhi di Dio.

Ancora mi chiedo... quale giustizia spetta a Dio? Di quale preghiera sta parlando Gesù? Mi sembra che stia parlando di una richiesta di giustizia: è forse un invito a non stancarci mai, nella nostra vita, di chiedere giustizia gli uni agli altri, di distribuire a Dio e agli altri ciò che in qualche modo è “loro” di quello che abbiamo o che siamo. Dio lo fa con noi: distribuisce a ciascuno di noi ciò che gli spetta, ma non è una questione di meriti o di privilegi. Siamo figli e ciò che ci “spetta” è l’amore incondizionato, tenero, fedele, compassionevole di un Padre, che va aldilà di come siamo o cosa facciamo. 

Ma lo crediamo, ci fidiamo di quest’Amore?   “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”