sabato 27 aprile 2013

Misteri della gioia - TERZO, LA NASCITA DI GESU’


L’Angelo disse ai pastori: “Oggi, nella città di Davide,
è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore”.
Lc 2,10-11

“In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra”.
Con queste parole Luca introduce il suo racconto sulla nascita di Gesù e spiega perché essa è avvenuta a Betlemme: un censimento con lo scopo di determinare e poi riscuotere le imposte è la ragione per cui Giuseppe con Maria, sua sposa, che è incinta, vanno da Nazaret a Betlemme.
La nascita di Gesù nella città di Davide si colloca nel quadro della grande storia universale, anche se l’imperatore non sa nulla del fatto che questa gente semplice, a causa sua, è in viaggio in un momento difficile e così, apparentemente per caso, il bambino Gesù nascerà nel luogo della promessa.

L’angelo aveva indicato come segno ai pastori che avrebbero trovato un bambino avvolto in fasce e adagiato in una mangiatoia. Questo è un segno di riconoscimento: una descrizione di ciò che si poteva constatare con gli occhi.
Non è un “segno” nel senso che la gloria di Dio si fosse resa evidente, così che si potesse dire con chiarezza: questi è il vero Signore del mondo. Niente di ciò. In tal senso, il segno è al contempo anche un non-segno: la povertà di Dio è il suo vero segno. Ma per i pastori, che avevano visto lo splendore di Dio sui loro pascoli, questo segno è sufficiente. Essi vedono dal di dentro. Vedono questo: ciò che l’angelo ha detto è vero. Così i pastori tornano con gioia. Glorificano e lodano Dio per quello che hanno udito e visto.
Benedetto XVI, Gesù di Nazaret 1 pag. 71 e 94



O Madre, tu conosci la trepidazione
e la bellezza dell’attesa.
Tu hai atteso la nascita del Figlio di Dio
che ha scelto te come culla del mistero.

Tu ora attendi per noi: tu sei la Madre dell’attesa!
Metti olio nelle nostre povere lampade
e insegnaci ad attendere il ritorno di Gesù
gioiosamente, fedelmente,
tenacemente ogni giorno.
Maranà tha! Vieni, Signore Gesù!
La Chiesa ti invoca: vieni, Signore Gesù!
Con Maria ti supplica: vieni, Signore Gesù!

                                          Angelo Comastri


Anche noi possiamo inneggiare a Gesù come gli angeli, Egli è nel tabernacolo come in Betlemme.
                                                       P. Giocondo Lorgna


Signore, insegnami ad accettare le mie povertà: è qui il luogo dove tu vuoi nascere.



Prego la “decina” del Rosario:
Padre nostro…
Ave Maria…
Gloria al Padre…



giovedì 25 aprile 2013

CONOSCO LE MIE PECORE, CIOÈ LE AMO

Per questo giovedì eucaristico vi suggeriamo di meditare questo testo. 
Buona adorazione.


Dalle «Omelie sui Vangeli» di san Gregorio Magno, papa (Om. 14, 3-6; PL 76, 1129-1130)

Cristo, buon pastore
«Io sono il buon Pastore; conosco le mie pecore», cioè le amo, «e le mie pecore conoscono me» (Gv 10, 14). Come a dire apertamente: corrispondono all'amore di chi le ama. La conoscenza precede sempre l'amore della verità.
Domandatevi, fratelli carissimi, se siete pecore del Signore, se lo conoscete, se conoscete il lume della verità. Parlo non solo della conoscenza della fede, ma anche di quella dell'amore; non del solo credere, ma anche dell'operare. L'evangelista Giovanni, infatti, spiega: «Chi dice: Conosco Dio, e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo» (1 Gv 2, 4).
Perciò in questo stesso passo il Signore subito soggiunge: «Come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e offro la vita per le pecore«(Gv 10, 15). Come se dicesse esplicitamente: da questo risulta che io conosco il Padre e sono conosciuto dal Padre, perché offro la mia vita per le mie pecore; cioè io dimostro in quale misura amo il Padre dall'amore con cui muoio per le pecore.
Di queste pecore di nuovo dice: Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna (cfr. Gv 10, 14-16). Di esse aveva detto poco prima: «Se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10, 9). Entrerà cioè nella fede, uscirà dalla fede alla visione, dall'atto di credere alla contemplazione, e troverà i pascoli nel banchetto eterno.

Le sue pecore troveranno i pascoli, perché chiunque lo segue con cuore semplice viene nutrito con un alimento eternamente fresco. Quali sono i pascoli di queste pecore, se non gli intimi gaudi del paradiso, ch'è eterna primavera? Infatti pascolo degli eletti è la presenza del volto di Dio, e mentre lo si contempla senza paura di perderlo, l'anima si sazia senza fine del cibo della vita.
Cerchiamo, quindi, fratelli carissimi, questi pascoli, nei quali possiamo gioire in compagnia di tanti concittadini. La stessa gioia di coloro che sono felici ci attiri. Ravviviamo, fratelli, il nostro spirito. S'infervori la fede in ciò che ha creduto. I nostri desideri s'infiammino per i beni superni. In tal modo amare sarà già un camminare.
Nessuna contrarietà ci distolga dalla gioia della festa interiore, perché se qualcuno desidera raggiungere la mèta stabilita, nessuna asperità del cammino varrà a trattenerlo. Nessuna prosperità ci seduca con le sue lusinghe, perché sciocco è quel viaggiatore che durante il suo percorso si ferma a guardare i bei prati e dimentica di andare là dove aveva intenzione di arrivare.

mercoledì 24 aprile 2013

Pranzi di futuro con gli studenti

Vi proponiamo la lettura di quest articolo di Alessandro d'Avenia, pubblicato sul suo blog.


In queste ultime settimane ho organizzato i “pranzi di futuro”. Per due giorni alla settimana le lezioni terminano alle 14, così mi fermo a pranzare al bar della scuola e lascio che i miei studenti di quinto anno, se vogliono, a turno, mi facciano compagnia nel mangiare un panino e mi raccontino che scelte stanno maturando o hanno maturato sul dopo maturità. Li ascolto e faccio loro da specchio, aiutandoli a diradare incertezze, paure e pressioni familiari o culturali.

Molti di loro sono più preoccupati di fallire che pieni di entusiasmo per l’inizio di qualcosa di nuovo. Tali sono le pressioni dell’ideologia stritolante del successo come riconoscimento della folla, che la paura finisce con l’offuscare la chiarezza della loro vocazione professionale che si è mostrata almeno parzialmente nel corso di 13 anni di scuola, dei quali ho assistito agli ultimi, i più importanti in questo senso. Devo sempre ricordare loro che il successo non è negli occhi degli altri, ma nell’essere se stessi.

La scuola spesso allena a superare prove e non alla vita, a cui ci si allena solo con una progressiva conoscenza di se stessi (limiti e talenti) e scelte conseguenti. Shakespeare scriveva che “quando l’anima è pronta, allora le cose sono pronte”. La paura di ragazzi che non riescono a scegliere è frutto di un’anima che si sta ancora cercando, molti invece sono più sicuri della scelta e ne hanno sì paura, ma proprio perché è la sfida nuova della loro vita: riuscirò a realizzare il mio talento? L’anima è pronta, le cose a poco a poco, con sacrificio e passione, lo diventeranno.

Potremmo provare a impostare il lavoro educativo in chiave di talenti invece che di pratiche di addestramento, necessarie sì, ma non sufficienti. Che me ne faccio di un ragazzo che sa affrontare un test e non sa neanche se quel test è quello che gli serve per realizzare la sua vocazione professionale e portare a compimento i germi di destino che ha intravisto negli anni di scuola?

Vorrei allora riferirmi ad una parabola spesso dimenticata, forse per il suo contenuto poco poetico rispetto a gigli, seminatori e alberi da frutto: “Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolare la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo dicendo: “Quest’uomo ha cominciato a costruire e non ha potuto finire”. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non si siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene contro con ventimila? Se no, mentre quello è ancora lontano, gli manda un’ambasciata per chiedergli le condizioni di pace” (Lc 14 28-32)

Mi è sempre piaciuta questa doppia parabola perché non fa sconti. Cristo sta parlando delle caratteristiche di chi vuole seguirlo, quindi proprio ad un discorso vocazionale: chi vuole intraprendere qualcosa di grande, unico, nuovo, non può improvvisare. Sono fermamente convinto che per laici che vivono in mezzo al mondo, la strada per realizzare la propria vita è quella di vivere in pienezza la propria vocazione professionale, cioè il fiorire dei talenti, lettere di un alfabeto divino nell’umano, che gradualmente impariamo ad usare.

Egli pone Adamo nel giardino perché “lo coltivi e custodisca” prima del peccato originale. Il modo di stare nel creato per l’uomo è coltivare e custodire il giardino: sviluppare le potenzialità intrinseche alle cose ma non ancora espresse (coltivare) e proteggere quel compimento (custodire). Proprio a partire da quel pezzo di mondo possiamo dialogare con Dio e fare intravedere agli altri la bellezza di questo dialogo nel quotidiano. Nella Genesi infatti si dice che Dio passeggiava con l’uomo nel giardino alla brezza della sera: quel giardino che l’uomo lavorava e custodiva.

Per questo credo sia così importante che un ragazzo trovi il suo pezzo di giardino da coltivare e custodire. Ma per far questo Cristo dice chiaro e tondo che bisogna sedersi a considerare mezzi a disposizione, fare calcoli e prendere decisioni: altrimenti saremo degni delle risate altrui (torre incompiuta) o sconfitti (guerra persa). Nella fede come nella vita è interpellato tutto l’umano: non possiamo improvvisare, basarci su emozioni passeggere o obbedire ad assurdi copioni culturali per le scelte professionali. Ne va dei nostri talenti e quindi del nostro stesso dialogo con Dio, che si sostanzia di quei talenti. Mi fa sorridere quando qualche ragazzo mi dice che Dio non parla, non dice niente. Io rispondo: parla anche troppo, nel quotidiano. Attraverso un libro, le parole di un amico o di un passante, ma soprattutto attraverso i nostri desideri, le nostre idee, i nostri limiti, i nostri talenti. Un cristianesimo fatto di cose straordinarie rischia di essere vuoto, disadattato rispetto alla storia, bigotto. Nell’ordinario di Dio ce n’è persino troppo. Basta avere i sensi aperti.

Dante avrebbe detto che una rosa dà gloria a Dio essendo rosa, un uomo essendo quell’uomo che Dio ha sognato prima che quell’uomo fosse. La rosa lo fa e basta e tutti rimaniamo incantati di fronte alla sua grazia. Un uomo, a differenza della rosa, è libero di farlo e noi rimaniamo più o meno incantati di fronte al compiersi di quella stessa grazia. O disincantati e addirittura feriti se quella grazia sparisce o è violata, come una rosa sfarinata sotto il tacco di chi non crede più nella bellezza.

I pranzi di futuro per me non sono altro che sedersi a considerare, con quello studente, come costruire la torre, come affrontare il nemico.

Solo se l’anima è pronta, allora le cose sono pronte. E il futuro fa meno paura.

lunedì 22 aprile 2013

UN UOMO ALLEGRO


S, Domenico era chiamato “uomo evangelico”; chiamato così dagli altri perché tutti riconoscevano in lui uno che credeva e viveva davvero il Vangelo. Ma il Vangelo è anzitutto buona novella, annuncio che reca la gioia. Ebbene, Domenico era proprio un uomo allegro: “Le testimonianza di coloro che vissero vicino al santo ce lo descrivono come un uomo di innata dolcezza, ricco di profonda umanità, di bontà congenita e di carattere gioviale”. (Alfonso D’AMATO, Domenico di Guzman. L’uomo, il santo, l’eredità)
Giordano di Sassonia, che fu non solo un fedele figlio di Domenico ma anche un suo contemporaneo e amico, racconta che era tale la gioia che riempiva come un vaso il cuore di Domenico, che essa risplendeva sul suo volto così da non potere passare inosservata. Quella luce che Sr. Cecilia vedeva sul volto del santo era la bellezza di una gioia quando il cuore ha deciso di non frenarla più, di crederci. Che bello pensare che colui che chiamiamo con devozione “luce della Chiesa” fu un fuoco di gioia.
Non aveva, Domenico, mille ragioni di essere triste considerando la situazione del suo tempo? E proprio per il suo tempo ha versato tante lacrime. Sapeva essere serio, raccolto nella preghiera, esigente con se stesso, fermo nel guidare l’Ordine nascente. Eppure non nascondeva la gioia. Era in lui un segno di bontà e tutta avvolta di tenerezza. Una gioia forte che si alimentava di preghiera, d’incontri umani, di grandi ideali perseguiti, di fiducia nelle persone come nel Signore… Così forte era la sua gioia che lo faceva cantare di notte mentre camminava sulle strade cacciando dal suo cuore la paura dei nemici che spesso stavano in agguato.

Anche noi, oggi, possiamo alimentare la pianticella della gioia che c’è nel nostro cuore, frutto immeritevole della risurrezione di Cristo. Possiamo nutrirla di preghiera, d’incontri, di valori e di gesti veri e freschi come un sorriso. Impariamo anche noi a cantare canti che seminano gioia, bontà e fiducia… Impariamo a cantare. C’è chi illumina il mondo con la luce della sua intelligenza, o con grandi opere di carità, con una vita santa o con il suo talento artistico… A noi tutti è data la possibilità di illuminare le giornate degli altri con la gioia. Ci sono mille doni d’amore nascosti nelle nostre giornate come piccole gocce di rugiada per innaffiare la nostra gioia: il riposo della notte, il cielo azzurro, il sorriso di un bambino, l’autista che ci ha aspettato alla fermata dell’autobus, la tranquillità della chiesa, la forza di fare il proprio lavoro. Quando cominciamo a vedere i gesti d’amore della Provvidenza, allora comincia a sfiorarci, con un sorriso inaspettato sul volto, quella gioia che è capace di vincere la tristezza e di contagiare. Sì, possiamo essere anche noi come Domenico che era amato da tutti per la sua bontà e la sua letizia, un po’ come papa Francesco! Non lasciamoli essere buoni da soli.



sabato 20 aprile 2013

DOMENICA DEL BUON PASTORE

Un messaggio che il vangelo di oggi ci dona è la custodia della nostra fede.
Ancora una volta ci viene detto che la vita cristiana non consiste essenzialmente nel fare qualche cosa per Dio, ma di lasciare che Lui, pastore della nostra vita si prenda cura di noi.
Questo non ci deresponsabilizza, anzi ci pone in una posizione di docilità al Signore. Ci viene chiesto di fidarci di Lui, rimanendo fedeli alle situazioni, anche di difficoltà e sofferenza, nelle quali siamo collocati. Al posto di tale disponibilità e fiducia alla sua azione, noi siamo invece continuamente tentati a tenere noi in mano la nostra vita, a pretendere di sapere cosa vogliamo e di che cosa abbiamo bisogno... sotto sotto....abbiamo paura.
Da uomini liberi e protagonisti, decidere di consegnarsi nelle mani del Signore, con questa infantile fiducia, è una profonda e radicale azione.

Bisogna custodire con amore questa fiducia, così semplice da accordare, ma così impegnativa da mantenere. Dio che non ha bisogno di nulla si fa se stesso quando si fa tutto per la fragile creatura umana che non è capace di curare i propri bisogni di vita. È il mistero d'amore di Dio, dentro il quale siamo coinvolti e travolti.

PERCHÈ ABBIAMO PAURA ALLORA?


Spesso non ho la forza di guardare
la luna della finestra gelata.
Sto nella fredda ombra dell'attesa.
Sento che questo tremito sotto di me
indica che sono su un ponte.

Spesso mi rimetto in fila
più per abitudine che per fiducia, 
con una speranza senza amore, 
senza mai lasciarmi prendere dall'onda.

A volte vengono notti che hanno fretta di partorire, 
vengono giorni che hanno voglia di cambiare.
Questa forma di coraggio
è un'ala che batte, 
confusa, tenera, ma che fiorirà.

Cerco lo sguardo di Dio che non vacilla, 
che mi chiede la fiducia
proprio quando il miracolo non c'è.
Di farmi bastare quello che cresce
davanti ai miei occhi.
Attraverso questa cruna
sono passate le mie speranze.

Don Luigi Verdi

venerdì 19 aprile 2013

Misteri della gioia - SECONDO: LA VISITA DI MARIA AD ELISABETTA


Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce:
“Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!
A che cosa devo che la madre del mio Signore venga a me?”.
Lc 1,41-43



La visita di Maria ad Elisabetta, che deriva come conseguenza dal colloquio tra l’angelo Gabriele e Maria, porta – ancora prima della nascita – ad un incontro, nello Spirito Santo, tra Gesù e Giovanni, e in questo incontro si rende al contempo evidente anche la correlazione delle loro missioni: Gesù è il più giovane, Colui che viene dopo. Ma è la vicinanza di Lui che fa sussultare Giovanni nel grembo materno e colma Elisabetta di Spirito Santo.
Così appare oggettivamente, già nei racconti di S. Luca sull’annuncio e sulla nascita, ciò che il Battista dirà: “Egli è colui del quale ho detto: - Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”.
Benedetto XVI, Gesù di Nazaret 1 pag. 35

Nel brano evangelico della visita ad Elisabetta, troviamo il cantico di Maria, il “Magnificat” che ogni sera viene ripetuto nella preghiera liturgica del Vespro. E’ un cantico che certamente ha raccolto varie espressioni bibliche già contenute nei Salmi o in altre composizioni di preghiera che troviamo nella Sacra Scrittura, ma proprio per questo compendia il grido dell’intera umanità.
Il cantico inizia con quasi un’esplosione di gioia, elevata a nome del popolo d’Israele a cui viene inviato il Salvatore. E’ un canto di profezia e di umile ringraziamento a Dio.

Il tenore di questo canto emerge subito nella prima parola: “L’anima mia magnifica – cioè rende grande – il Signore”. Rendere Dio grande vuol dire dargli spazio nel mondo, nella propria vita, lasciarlo entrare nel nostro tempo e nel nostro agire: è questa l’essenza più profonda della vera preghiera. Dove Dio diventa grande, l’uomo non diventa piccolo: lì diventa grande anche l’uomo e luminoso il mondo.
Benedetto XVI in un discorso fatto in Baviera nel 2006


Alle parole di Maria il bambino di Elisabetta viene santificato, Gesù viene nell’a-nima nostra per santificarci.
P. Giocondo Lorgna



Signore, insegnami a donarti
ai miei fratelli attraverso il servizio e la lode.





Prego la “decina” del Rosario:
Padre nostro…
Ave Maria…
Gloria al Padre…