sabato 26 aprile 2014

Salmo 28(27)



Il salmo inizia con un grido dell’orante davanti all’inesorabile silenzio di Dio. Il protagonista potrebbe essere un malato, un perseguitato, ma anche una intera comunità che riconosce, nel silenzio di Dio, una condanna per l’iniquità che si annida nello stesso popolo eletto.
Anche in questo salmo si può identificare una prima parte più personale e una parte finale attribuibile ad un coro di acclamazione liturgica. Il tradizionale contenuto dei salmi di supplica (Dio, io, i nemici) sembra qui presentare un’amarezza interiore dove l’orante chiede di non subire la sorte dovuta agli empi. Alla base c’è un concetto tradizionale di retribuzione terrena che si espanderà più tardi nella prospettiva della realtà ultraterrena.
Il salmo mette in parallelo il silenzio di Dio con il precipitare del fedele nella fossa, simbolo di morte e di distruzione.
Le mani che si levano nell’atto della preghiera sono un simbolo fisico, un gesto classico in tutte le culture, ereditato infine anche dal cristianesimo. Tale gesto è visto come un ponte di comunicazione tra l’alto (la zona di Dio) e il basso (la zona dell’uomo).
Il silenzio divino diventa la risposta del giudice nei confronti degli empi, e la giustizia di Dio è la ragione ultima della fiducia e della supplica contenute nel salmo.




A te grido, Signore;
non restare in silenzio, mio Dio,
perché, se tu non mi parli,
io sono come chi scende nella fossa.
Ascolta la voce della mia supplica,
quando ti grido aiuto,
quando alzo le mie mani
verso il tuo santo tempio.
Non travolgermi con gli empi,
con quelli che operano il male.
Parlano di pace al loro prossimo,
ma hanno la malizia nel cuore.
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Sia benedetto il Signore,
che ha dato ascolto alla voce della mia preghiera;
il Signore è la mia forza e il mio scudo,
ho posto in lui la mia fiducia;
mi ha dato aiuto ed esulta il mio cuore,
con il mio canto gli rendo grazie.
Il Signore è la forza del suo popolo,
rifugio di salvezza del suo consacrato.
Salva il tuo popolo e la tua eredità benedici,
guidali e sostienili per sempre.


mercoledì 23 aprile 2014

Ancora Pasqua!!



«Il Signore è Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. Dio non è Dio di morti, ma di vivi».
Dio «di»: in questo «di» ripetuto cinque volte è contenuto il motivo ultimo della risurrezione, il segreto dell'eternità. Una sillaba breve come un respiro, ma che contiene la forza di un legame, indissolubile e reciproco, e che significa: Dio appartiene a loro, loro appartengono a Dio.
Dio di Abramo, Dio di mio padre, di mia madre... Se quel legame si dissolve è il nome stesso di Dio che si spezza. Il Dio più forte della morte è così umile da ritenere i suoi amici parte integrante di sé, da qualificarsi attraverso i nomi di quanti hanno vissuto nella sua amicizia.
Dio stesso è la nostra vita, e lui vive di noi, vive di me, poiché l'amato è la vita di chi ama.
La morte sta dietro, alle spalle, non in faccia. In faccia a me sta il Dio dei viventi. (E.Ronchi)

Rembrandt - particolare
Che bello sarebbe se anche noi provassimo a qualificare le nostre vite attraverso i nomi di quanti hanno vissuto nella nostra amicizia, di quanti ci hanno amato e ci amano: se ci presentassimo dicendo "Giorgia di Dio, di Sabrina, di Antonio, di...", "Giovanni di Dio, di Giovanna, di Giuliano, di Isabella, di Giulia.." . Dio vive di noi e noi viviamo di Lui attraverso la vita di chi amiamo e di chi ci ama. Dio appartiene a noi e noi apparteniamo a Lui: la speranza è davanti ai nostri occhi!
Buona Pasqua..ancora!

sabato 19 aprile 2014

Salmo 27(26)



Questo salmo è una complessa pagina poetica che presenta un duplice stato d’animo: di serenità davanti agli uomini e un sentimento timoroso e supplice davanti a Dio. Il salmo forma così quasi due tavole simmetriche, un dittico che trova unità nell’ambito del tempio. L’espressione “cercare il volto di Dio” è sinonimo di “entrare nel tempio”. La prima parte del salmo ne fa chiaro riferimento con le parole: casa, santuario, tabernacolo.
Nel salmo 27(26) la gioia e la paura, atteggiamenti fondamentali della vita, appianano il loro contrasto nella fiducia in Dio. Questa fiducia è simboleggiata dalla “rupe”, il colle roccioso di Sion dove era stato costruito il tempio.
Nella prima parte, il salmo presenta simboli di guerra, parla di nemici, accenna a grida di vittoria e sacrifici di ringraziamento. Entrato poi nel tempio, l’orante parla soprattutto con il cuore. Si definisce “servo”, titolo che non ha significato umiliante ma di totale adesione a Dio, titolo che la Sacra Scrittura applica ad Abramo, a Mosé, a Davide, e perfino alla misteriosa figura messianica descritta dal profeta Isaia.
Nel salmo viene descritto un itinerario di vita che ha come meta la parola di Dio. Tutt’attorno c’è vuoto e solitudine, oscurità e persecuzioni, ma il fedele proclama che la bontà del Signore è certezza incrollabile.




Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò paura?
Il Signore è difesa della mia vita, di chi avrò timore?
Quando mi assalgono i malvagi per straziarmi la carne,
sono essi, avversari e nemici, a inciampare e cadere.
Se contro di me si accampa un esercito,
il mio cuore non teme;
se contro di me divampa la battaglia,
anche allora ho fiducia. 

Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco:
abitare nella casa del Signore
tutti i giorni della mia vita,
per gustare la dolcezza del Signore
ed ammirare il suo santuario.
Egli mi offre un luogo di rifugio nel giorno della sventura.
Mi nasconde nel segreto della sua dimora, mi solleva sulla rupe.
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Mostrami, Signore, la tua via,
guidami sul retto cammino, a causa dei miei nemici.
Non espormi alla brama dei miei avversari;
contro di me sono insorti falsi testimoni che spirano violenza.
Sono certo di contemplare la bontà del Signore
nella terra dei viventi. Spera nel Signore, sii forte,
si rinfranchi il tuo cuore e spera nel Signore.