lunedì 30 settembre 2013

Un Ordine per la predicazione

Iniziamo con questo mese missionario un viaggio nella spiritualità domenicana. Non mancano su Internet delle presentazioni su questo argomento. Ma vogliamo farlo con uno sguardo da domenicane della Beata Imelda, certe che il nostro modo di essere domenicane ha una sfumatura propria che arricchisce la vita dell’Ordine e della Chiesa.

“Consacrate all’Eucaristia per la missione” tali sono le prime parole con le quali la nostra vita viene definita nelle nostre Costituzioni attuali. Tale è soprattutto il modo con il quale noi ricordiamo l’identità del nostro Ordine: Ordine dei Predicatori, di quelli che sono chiamati, consacrati per andare a parlare ad alta voce di Dio. Predicare vuol dire proclamare.

Insieme con tutta la famiglia domenicana, ci prepariamo a celebrare gli 800 anni dell’approvazione dell’Ordine da parte di papa Onorio IIIo. “Mandati a predicare il Vangelo”, così scriveva nei documenti ufficiali di conferma dell’Ordine. Per la prima volta nella storia della Chiesa, si attribuiva il ministero della predicazione a tutto un istituto e a tutti quelli che nel futuro ci sarebbero entrati.


La predicazione del Vangelo unisce tutti i domenicani: Monache, Frati, Laici, Suore, Giovani. Essa modella la nostra vita, le nostre leggi di Suore Imeldine, secondo il nostro carisma proprio. Ci sprona a fare della nostra vita di fede una lucerna sul moggio. La nostra vita comunitaria, le nostre attività anche il nostro abito sono elementi di questa predicazione.

domenica 29 settembre 2013

Invisibili

Nella Parola di Dio di oggi, e per tutto il Vangelo di Luca c’è una netta presa di posizione contro l’accumulo dei beni.
Guai a voi che, che siete ricchi, perché avete già il vostro conforto” (Lc 6,24), “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?” (Lc 12,20).
In questa parabola però il ricco, più che cattivo è ignorante: non viene condannato da Gesù perché maltratta o disprezza il povero, ma perché lo ignora.

Nel mondo del ricco, i poveri sono invisibili, sono esclusi dal suo mondo, quasi non sa dell’esistenza di un mendicante “che stava alla sua porta coperto di ulcere”(Lc 16,20).
Tra i due non c’è contatto, anzi, c’è un abisso. “L’eternità inizia quaggiù, l’inferno non sarà la sentenza improvvisa di un despota, ma la lenta maturazione delle nostre scelte senza cuore.” (E.Ronchi)
Il male è l’indifferenza, lasciare intatto l’abisso fra le persone, mentre “ il primo miracolo è accorgersi che l’altro, il povero esiste” (S.Weil) e che si può cercare di colmare l’abisso di ingiustizia che ci separa.

Anche nel nostro mondo i poveri corrono il rischio di essere invisibili, per non dire che lo sono realmente. A volte credo che semplicemente ci mettiamo la coscienza a posto, sostenendo missioni in paesi lontani. Eh sì, perché per la nostra società capitalista i poveri sono solo lì, sono i grandi sfruttati dal capitalismo e i mali del mondo diventano grandi problemi.

Quante parole, quanti gesti di cura potremmo regalare ai nostri “naufraghi della vita”, di quanta dignità e rispetto hanno bisogno, i nostri anziani, i nostri ammalati, i nostri figli, il nostro consorte, l’amico più caro.
Quanti uomini e donne hanno bisogno di essere riportati tra gli uomini perché adesso sono solo ombre tra cani.

LA parabola si chiude con una punta di scetticismo “ se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti” (Lc 16,31).
Con queste parole finali Gesù avverte i farisei che neanche la sua vittoria sulla morte li convincerà. Quanti sono incapaci di condividere il loro pane con l’affamato non riusciranno mai a credere nel Risorto, riconoscibile solo nello spezzare del pane”. (A.Maggi)



Il pane che a voi sopravanza è il pane dell’affamato.
Il vestito appeso nel vostro armadio è il vestito di chi è nudo.
Le scarpe che voi non portate sono le scarpe di chi è scalzo.
Il denaro che tenete nascosto è il denaro del povero.
Le opere di carità che voi non compite sono altrettante ingiustizie che voi commettete.

(S. Basilio)

venerdì 27 settembre 2013

PROCLAMARE LA PROPRIA FEDE: FIDUCIA E OBBEDIENZA

«Dopo l'ascolto della Parola viene il momento dell’impe­gno»; noi siamo invitati a proclamare la nostra fede. Ma cos’è la fede?

“La fede è la nostra risposta all'appello dell'amore di Dio. Essa è il movimento con cui tutto il nostro essere si ab­bandona, si consegna e si affida a colui nel quale si è spe­rimentato un amore più forte della morte. È così che uomi­ni e donne si allontanano dai sentieri battuti per seguire la via di colui che ha aperto davanti a loro la via del Regno.”
Anche noi siamo invitati come Abramo, come Mosè, come Pietro, ad abbandonare le nostre sicurezze o i nostri beni o il nostro interesse per affidarci e affidare tutta la nostra vita alla Parola di Dio con fiducia.

È quello che vediamo nel vangelo: perfino prima di pronun­ciare il nome di Dio, prima di recitare un credo ortodosso, prima di riconoscere la divinità di Gesù, quelli che lo in­contrano provano una tale fiducia che si gettano verso di lui, malgrado i loro handicap (ciechi), il rispetto umano (li si tratta male: Zaccheo), il giudizio degli altri (Maria la prostituta), i rifiuti aspri dello stesso Gesù (la donna sirofenicia). Essi escono da se stessi, attratti dalla forza che emana da Gesù.”
E’ la forza dell’amore, che chiede fiducia e offre fiducia, che invita ad uscire da sé per abbandonarsi a Dio, “quel Dio che ha schiuso le porte e aperto le vie con il suo amore premuroso”.

Un Dio che crediamo Padre e Figlio e Spirito Santo, non per una “sem­plice speculazione intellettuale di teologi bizantini: confessare Dio Uno, ma Uno in una triplice relazione d'amore, è considerare che tutta la vita è fondata su una si­mile relazione di comunione; è confessare che questa rela­zione è creatrice. (..)La sicurezza di Gesù, la sua fiducia, la sua disponibilità, la gra­tuità del suo amore universale gli derivano dall'amore di suo Padre: è là ch'egli attinge la forza d'amare e di darsi. Perché il Padre non è il tiranno domestico che ordina e giudica secondo la sua fantasia onnipotente: è Amore egli stesso, umile e creatore. Il suo progetto è di comunicare all'uomo la sua potenza creatrice e noi possiamo vedere co­me, in Gesù, questo progetto si compia senza spezzare la relazione filiale.”

La relazione tra Gesù e il Padre è caratterizzata dall’obbedienza, ma un’obbedienza che si fonda sulla percezione dell’amore del Padre, una fiducia assoluta nella sua bontà: “ (il Padre) vuole il bene della sua creazione e farà di tutto per condurla al suo compimento con la sola forza del suo amore e rispettando totalmente la libertà di coloro ai quali egli l'affida. Questa fiducia assoluta per­mette a Gesù di abbandonarsi perfino alla morte, perché è certo che, nella stessa morte, Dio porterà la vita.”

Seguire Gesù è allora come Lui porre la propria fiducia totale nell’amore del Padre “e, da quel momento, non rinchiudersi più in se stessi: questa fiducia spinge all'esproprio, ma essa dona nel contempo una grande libertà e uno slancio creativo.”

E’ come dire che nella prima parte della Messa, che si conclude con il Credo, siamo invitati a compiere un passaggio da noi stessi a Dio, attraverso l’ascolto della sua Parola d’Amore: “noi abbiamo riconosciuto l’amore e vi abbiamo creduto, dice san Giovanni”.

Ed è una fede che si fa comportamento quotidiano, concreto: “Ciò significa che investiamo la nostra vita sull'amore come l'abbiamo conosciuto in Gesù Cri­sto. Crediamo al potere dell'amore e solo a quello: ciò si­gnifica che rifiutiamo tutti gli altri mezzi di potenza – po­tere e violenza – e che poniamo la nostra fiducia nel dono di sé fino a morirne. Ciò significa ancora che la comunione è al centro della nostra vita e della vita di tutta la creazio­ne: Dio, che è l'Essere stesso, è relazione e comunione. Gli esseri, quindi, esistono gli uni mediante gli altri, gli uni per gli altri: ciascuno è indispensabile al tutto e a ciascuno degli altri.”


martedì 24 settembre 2013

Fecondi come melograni

Tra le cose da fare quest’oggi c’era tentare di scrivere l’articolo del martedì. Volevo scrivere qualcosa sull’intervista di Spadaro a Papa Francesco, ricca di stimoli, ma non sapevo da dove partire. Sento bussare e inaspettatamente entra Suor Maria Rosa che mi porta un sorriso e un vasetto con fiori di Melograno, uno dei miei frutti preferiti, a rallegrarmi la mattina.

Eureka!

Una delle parti che più mi ha colpita dell’intervista è quando padre Spadaro chiede a Papa Francesco di approfondire questa espressione di S. Ignazio “sentire con la Chiesa”.
È molto bello ripercorrere la Chiesa dei papi, come l’hanno sentita, come l’hanno vissuta nel profondo…e anche per questo tema il pensiero di Papa Francesco sa affasciare e intenerire.

L’immagine della Chiesa che mi piace è quella del santo popolo federe di Dio. […] L’appartenenza a un popolo ha un forte valore teologico: Dio nella storia della salvezza ha salvato un popolo. Non c’è identità piena senza appartenenza a un popolo. Nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae considerando la complessa trama di relazioni interpersonali che si realizzano nella comunità umana. Dio entra in questa dinamica popolare.

Il popolo è soggetto. E la Chiesa è il popolo di Dio in cammino nella storia, con gioie e dolori. Sentire cum Ecclesia dunque per me è essere in questo popolo. E l’insieme dei fedeli è infallibile nel credere, e manifesta questa sua infallibilitas in credendo mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo che cammina.[…] Quando il dialogo tra la gente e i Vescovi e il Papa va su questa strada ed è leale, allora è assistito dallo Spirito Santo. Non è dunque un sentire riferito ai teologi”.

“È come con Maria, se si vuol sapere chi è, si chiede ai teologi; se si vuol sapere come la si ama, bisogna chiederlo al popolo, A sua volta, Maria amò Gesù con cuore di popolo, come leggiamo nel Magnificat. Non bisogna dunque neanche pensare che la comprensione del sentire con la Chiesa sia legata solamente al sentir con la sua parte gerarchica. […] Chiesa come popolo di Dio , pastori e popolo insieme. La Chiesa è la totalità del popolo di Dio.”

“Io vedo la santità del popolo di Dio, la sua santità quotidiana. […] Io vedo la santità nel popolo di Dio paziente: una donna che fa crescere i figli, un uomo che lavora per portare a casa il pane, gli ammalati, i preti anziani che hanno tante ferite ma che hanno il sorriso perché hanno servito il Signore, le suore che lavorano tanto e che vivono una santità nascosta. Questa per me è la santità comune. La santità io la associo spesso alla pazienza: non solo la pazienza come Hypomoné, il farsi carico degli avvenimenti e delle circostanze della vita, ma anche come costanza militante di cui parla anche sant’Ignazio.”

“Questa Chiesa con la quale dobbiamo sentire è la casa di tutti, non una piccola cappella che può contenere solo un gruppetto di persone selezionate. Non dobbiamo ridurre il seno della Chiesa universale a un nido protettore della nostra mediocrità. E la Chiesa è Madre, la Chiesa è feconda, deve esserlo. Vedi, quando io mi accorgo di comportamenti negativi di ministri della Chiesa o di consacrati o consacrate, la prima cosa che mi viene in mente è: “ ecco uno scapolone”, o “ecco una zitella”. Non sono né padri, né madri. Non sono stati capaci di dare vita. Invece, per esempio, quando leggo la vita dei missionari salesiani che sono andati in Patagonia, leggo una storia di vita, di fecondità.”

“Questa fecondità mi fa tanto bene”.

Ho pensato che queste citazioni si collegassero col significato che nella cristianità, ma anche in tante altre civiltà, ha il melograno.

Questo frutto è simbolo di abbondanza, amore ardente e passione. Si sprecano quadri  rinascimentali che mettono in mano al Bambin Gesù una melagrana, simbolo di nuova vita donata all’umanità. Che bello che il nostro Papa è così attento e legato a questa Chiesa Madre, accogliente e pluralista.


Che il suo pontificato possa essere molto fecondo.


sabato 21 settembre 2013

Buoni amministratori

Dal Vangelo secondo Luca 16, 1-13

In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli: 
«Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. 
L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. 
Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”. 
Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. 
Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.
Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?
Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».

Parola del Signore.

Uomo disonesto o buon amministratore?
Davvero strana la figura di questa parabola ... a me così difficile da comprendere. Il padrone loda l'amministratore disonesto, colui che si fa degli amici con la ricchezza disonesta. 
Per me è difficile capire come il Signore riesce a ribaltare la situazione, eppure è così i debiti sono rimessi e il malfattore diventa benefattore regalando pane, olio e quindi vita ai debitori.
A me continua a suonare strano, perchè l'intenzione è l'interesse che ne ricaverà. 

Intanto il denaro cambia senso, non si accumula più ma si dona alla ricerca non più di un guadagno ma di un amicizia.
E il denaro, i beni materiali sono solo dei mezzi utili per crescere nell'amore e nell'amicizia, per fare del bene. "ottimi servitori ma pessimi padroni. Il denaro non è in sé cattivo, ma può diventare un idolo e gli idoli sono crudeli perché si nutrono di carne umana, aggrediscono le fibre intime dell'umano, mangiano il cuore. Cominci a pensare al denaro, giorno e notte, e questo ti chiude progressivamente in una prigione. Non coltivi più le amicizie, perdi gli amici; li abbandoni o li sfrutti, oppure saranno loro a sfruttare la situazione.
La parabola inverte il paradigma economico su cui si basa la società contemporanea: è il mercato che detta legge, l'obiettivo è una crescita infinita, più denaro è bene, meno denaro è male. Se invece legge comune fossero la sobrietà e la solidarietà, la condivisione e la cura del creato, non l'accumulo ma l'amicizia, crescerebbe la vita buona.
Altrimenti nessun povero ci sarà che apra le porte della casa del cielo, che apra cioè fessure per il nascere di un mondo nuovo." (E. Ronchi)