martedì 29 luglio 2014

«Mi vergogno e vi chiedo perdono»


Naomi Levari è regista e produttrice teatrale e cinematografica. Diremmo che è israeliana se lei non preferisse dire che vive in Israele. Tre giorni fa, di fronte alla tragedia di Gaza, si mette davanti alla videocamera del computer e parla. Poi posta il tutto su Facebook e Youtube. Abbiamo tradotto il suo messaggio che è intraducibile senza il corpo che lo pronuncia, il suo respiro, le sue pause. Come Naomi, anche noi non possiamo – in ultima istanza – far niente per questa tragedia. Possiamo solo esserci col nostro corpo e col nostro respiro. Il video fa vedere che questo – che sembra niente – non è niente: è la sola cosa che può salvare noi e il mondo.
14 luglio 2014
Cara gente di Gaza,
Qualsiasi cosa stia per dire sembrerà priva di senso di fronte a ciò che state attraversando. Però al momento è l’unico strumento che ho – le mie parole. Mi chiamo Naomi Levari e vivo in Israele. Mi vergogno e vi chiedo perdono. Mi preoccupo per voi, piango per voi e soffro per le vostre perdite.
Questi sono giorni bui e so che questo non può consolarvi in alcun modo. Ma qualcuno di noi sta facendo tutto quello che può – che non è molto – per mettere fine a tutto questo: dimostrazioni, momenti pubblici, e nei nostri cuori stiamo chiedendo che le nostre preghiere siano ascoltate nel cielo al di sopra delle nostre anime. A voi non è più rimasta alcuna parola.
E io spero che tutto questo cambi presto. Mi appello ai governanti di Israele perché si comportino come persone responsabili, come leader, e che pongano immediatamente fine a questo spargimento di sangue. Ricordo al popolo di Israele che questo non è un videogame, che non ci sono vincitori e vinti, punteggi e classifiche: ci sono solo sconfitti. La gente continua a essere uccisa, le case ad essere distrutte, i sogni ad essere seppelliti. La società israeliana sta perdendo la sua tolleranza e sta diventando una banda di delinquenti.
L’unica cosa che possiamo fare è – ancora una volta – chiedervi perdono e usare tutti gli strumenti che abbiamo per fermare tutto questo. State al sicuro.

articolo tratto da bergmopost

sabato 26 luglio 2014

Salmo 41 (40)

Anche questo Salmo è diventato celebre nella riflessione cristiana, perché il v. 10 viene citato da Gesù a proposito del tradimento di Giuda: “Colui che mangia il pane con me, ha levato contro di me il suo calcagno” (Gv 13,18).
Come in altri Salmi, il tema centrale del Salmo 41 (40) riguarda un malato grave che, consapevole della verità del dogma della retribuzione, si sente colpevole, ma anche ingiustamente colpito dai sarcasmi e dalla crudeltà di nemici e di amici traditori. La violazione dell’amicizia e dei rapporti di ospitalità è uno dei massimi delitti per l’Oriente.
Il Salmo inizia con una beatitudine-benedizione di tono diverso dal resto dell’intera composizione, la quale però ha anche una tonalità di ringraziamento, ed è comunque una lezione di umiltà e di fedeltà a Dio, di fiducia in Lui.
Il v. 14 è ritenuto la prima delle tradizionali dossologie finali (Amen, Alleluia) che chiudono i cinque libri in cui è stato diviso il Salterio da parte della tradizione giudaica, con riferimento ai cinque libri del Pentateuco.
Le dossologie successive si trovano in:
Sal 72,18-19 - Sal 89,53 - Sal 106,48 - Sal 150.

Beato l'uomo che ha cura del debole,
nel giorno della sventura il Signore lo libera.
Veglierà su di lui il Signore,
lo farà vivere beato sulla terra,
non lo abbandonerà alle brame dei nemici.
Il Signore lo sosterrà sul letto del dolore;
gli darai sollievo nella sua malattia.
Io ho detto: "Pietà di me, Signore;
risanami, contro di te ho peccato".
I nemici mi augurano il male:
"Quando morirà e perirà il suo nome?".
Chi viene a visitarmi dice il falso,
il suo cuore accumula malizia
e uscito fuori sparla.
Contro di me sussurrano insieme i miei nemici,
contro di me pensano il male:
"Un morbo maligno su di lui si è abbattuto,
da dove si è steso non potrà rialzarsi".
Anche l'amico in cui confidavo,
anche lui, che mangiava il mio pane,
alza contro di me il suo calcagno.
Ma tu, Signore, abbi pietà e sollevami,
che io li possa ripagare.
Da questo saprò che tu mi ami
se non trionfa su di me il mio nemico;
per la mia integrità tu mi sostieni,
mi fai stare alla tua presenza per sempre.
Sia benedetto il Signore, Dio d'Israele,
da sempre e per sempre. Amen, amen.


giovedì 24 luglio 2014

Conclusione



Continuiamo la pubblicazione dell’intervento di p. Timothy Radcliffe (12).

Bene, mi avvio alla conclusione dopo un’ultima riflessione. Imparare ad amare è un compito difficile. Non sappiamo dove ci porterà. La nostra vita ne sarà stravolta. Capiterà che ci faremo male. Sarebbe più facile avere cuori di pietra che cuori di carne, però allora saremmo morti! Se siamo morti non possiamo parlare del Dio della vita. Però come trovare il coraggio di vivere passando per questa morte e resurrezione? In ogni eucarestia ricordiamo che Gesù ha sparso il suo sangue per il perdono dei peccati. Questo non significa che doveva placare un Dio furioso. Né significa solamente che se sbagliamo possiamo andare a confessare i nostri peccati ed essere perdonati. Significa molto di più. Significa che, in ogni nostra battaglia per essere persone che amano e sono vive, Dio è con noi. La grazia di Dio è con noi nei momenti di caduta e di confusione, per metterci di nuovo in piedi. Nello stesso modo in cui con la domenica di Pasqua Dio ha convertito il venerdì santo in un giorno di benedizione, possiamo stare sicuri che tutti i nostri tentativi di amare daranno frutto. E perciò non abbiamo nulla da temere! Possiamo addentrarci in questa avventura, con fiducia e coraggio.


Concludiamo qui la pubblicazione di questo testo di p. T. Radcliffe: testo affascinante, su cui vale la pena ritornare, fermarsi e riflettere. Testo che ci invita ad avvicinarci all’Eucaristia con uno sguardo diverso, con una consapevolezza diversa, a partire anche dalla nostra umanità, dalla nostra corporeità. Buona riflessione ancora!
“In ogni nostra battaglia per essere persone che amano e sono vive, Dio è con noi!”

martedì 22 luglio 2014

Tutti i dubbi su Facebook ma anche qualche sana domanda

Abbiamo deciso di condividere questo articolo di Lea Melandri, perché ci sembra riflettere adeguatamente su Facebook e sull'uso che ne facciamo. Le sue domande ne aprono altre che ci aiutano a prendere consapevolezza e coscienza di chi siamo quando utilizziamo questi strumenti senza darli per scontati e senza sminuirli. 
Come utilizziamo Facebook? Lo usiamo per guardare le vite degli altri (e cosa guardiamo delle loro vite?)? Lo usiamo per farci guardare (e cosa mettiamo in mostra di noi?)? Lo usiamo per fare pubblicità? Ma il contenuto di questa pubblicità non siamo noi? E`un luogo dove cercare approvazione e conferme? E`il luogo adatto a rinsaldare legami e mantenere contatti? 
Buona riflessione!
Non c’è dubbio, Facebook fa discutere, ma sembra che sia difficile farne un’analisi capace di mostrarne gli aspetti contraddittori. C’è chi lo respinge a priori e, una volta entrato, non riesce più a farne a meno e chi se ne allontana come se avesse visto una macchina infernale. Sono usciti, a distanza di pochi giorni, due giudizi molto critici: un’intervista a Zigmund Bauman sulManifesto (6.6.14) e un articolo di Elena Stancanelli su Repubblica(8.6.14). Scrive Bauman: «Un tempo erano i walkman, ora Facebook. Entrambi hanno trasformato le relazioni, abolendo l’impegno e la profondità del dialogo (…) il mondo perduto dei follower distrugge le relazioni sociali e aumenta le solitudini». E Stancanelli: «Le emozioni on­line sono più virtuali delle emozioni reali perché vivono nell’acquario della rete, in cattività, senza nessun contatto col mondo fuori (…) non interessano il corpo, tranne come dicevamo la punta dei polpastrelli, e solo di striscio il cervello (…) Si disinibiscono, dicono cose che nella vita vera non direbbero mai. Dragano la rete alla ricerca di immagini spiritose, felici di essere manipolati, usati come topi per esperimenti, partecipi di un gigantesco reality che ha per scopo di vendere creme depilatorie».

Per Stancanelli si salvano solo quei pochi che «non sventolano emozioni on­line», che usano Facebook per avere rassegne stampa mirate, o per difendere idee destinate a cambiare il mondo. Ma aggiunge che lei non ne conosce.
Da neofita curiosa, partecipe e infantilmente divertita dei social network,non posso negare di avere dubbi, ma soprattutto domande.
Innanzi tutto: è così vero che le emozioni on­line sono così diverse da quelle reali?
Le fantasie, i desideri, i ragionamenti, le immagini di noi stessi, delle persone e dei luoghi che amiamo, sono così “astratte” dal corpo da cancellarlo?
Quando entriamo nella rete, è vero che siamo soli davanti a un computer o a uno smartphone, ma è una solitudine che subito va a cercare nomi, volti, parole, storie personali e sociali. Il dialogo ovviamente è limitato, spesso ridotto a un «mi piace», un punto esclamativo, ma sai che quelle persone ci sono, che volendo le puoi incontrare, alzare un telefono e sentirne la voce, condividere con loro iniziative pubbliche.
Quante relazioni personali, culturali e politiche si sono sorrette finora su lettere, articoli, libri, fotografie?
Sono testimone di grandi manifestazioni nate imprevedibilmente dalla circolazione di una mail, di un post, di una rete nata su facebook. Perché dare per scontato che l’impegno, gli interessi coltivati da singoli, gruppi, associazioni non possano trovare risonanza maggiore dal momento che si dà loro la possibilità di incontrare una moltitudine di sconosciuti? Ma anche lasciando stare le occasioni sociali e culturali che crea, e che probabilmente interessano a una minoranza di utenti, penso che meriti attenzione proprio l’aspetto che più viene criticato: l’esposizione di sè in ciò che ognuno ha di più “privato”e “intimo”.
Il fatto di veicolarli on­line, sentimenti, emozioni, sogni, fantasie, attese, non sono per questo meno reali. Forse è per questa via, solitaria e popolatissima, che cercano di uscire dal lungo esilio a cui li ha costretti l’astratta, deformante separazione tra privato e pubblico, corpo e pensiero, casa. Il fatto che su questa materia viva di esperienze cali l’ombra dei poteri forti, economici e politici, merita certamente di essere discusso, ma almeno quanto il peso che hanno esercitato per secoli il pudore, la repressione sessuale, l’imperativo morale e religioso.

sabato 19 luglio 2014

Salmo 40 (39)

Nel Salmo 40 (39) l’iniziale ricordo di un passato felice porta a sperare che la presente calamità si risolva e torni a brillare la gioia. I grandi interventi salvifici per l’intero Israele sono la radice degli atti divini di salvezza destinati ai singoli.
Il canto di ringraziamento viene definito qui “un canto nuovo”, sia perché la guarigione è come una vita rinnovata, sia perché l’eccezionalità del prodigio prelude la novità messianica e l’opera salvifica di Jahweh.
Nei vv. 7.8.9 troviamo un messaggio “Ecco io vengo…“ che porta alla più pura spiritualità profetica e alla visione genuina della fede biblica. Il testo viene ripreso nella Lettera agli Ebrei (Eb 10,4-7) dove riceve un nuovo valore e tutta la sua compiutezza, facendo riferimento alla venuta del Salvatore. La “grande assemblea” di cui si parla nel v. 10 è l’ekklesía nella traduzione greca, la chiesa come equivalente nella lingua italiana. Come sempre il ringraziamento del singolo sfocia in un grazie corale.

Ho sperato: ho sperato nel Signore
ed egli su di me si è chinato,
ha dato ascolto al mio grido.
Mi ha tratto dalla fossa della morte,
dal fango della palude;
i miei piedi ha stabilito sulla roccia,
ha reso sicuri i miei passi.
Mi ha messo sulla bocca un canto nuovo,
lode al nostro Dio.
Molti vedranno e avranno timore
e confideranno nel Signore.
Beato l'uomo che spera nel Signore
e non si mette dalla parte dei superbi,
né si volge a chi segue la menzogna.
Quanti prodigi tu hai fatto, Signore Dio mio,
quali disegni in nostro favore:
nessuno a te si può paragonare.
Se li voglio annunziare e proclamare
sono troppi per essere contati.
Sacrificio e offerta non gradisci,
gli orecchi mi hai aperto.
Non hai chiesto olocausto e vittima per la colpa.
Allora ho detto: "Ecco, io vengo.
Sul rotolo del libro di me è scritto,
che io faccia il tuo volere.
Mio Dio, questo io desidero,
la tua legge è nel profondo del mio cuore".

Ho annunziato la tua giustizia
nella grande assemblea…

Esultino e gioiscano in te quanti ti cercano,
dicano sempre: "Il Signore è grande"
quelli che bramano la tua salvezza.
Io sono povero e infelice;
di me ha cura il Signore.
Tu, mio aiuto e mia liberazione,
mio Dio, non tardare.

giovedì 17 luglio 2014

Terzo passo!



Continuiamo la pubblicazione dell’intervento di p. Timothy Radcliffe (11).

Il terzo passo, forse il più difficile, è che il nostro amore deve liberare le persone. Ogni amore, che sia tra persone sposate o singole, deve essere liberante. L’amore tra marito e moglie deve aprire grandi spazi di libertà. E questo è tanto più vero per noi che siamo sacerdoti o religiosi.
Dobbiamo amare perché gli altri siano liberi di amare gli altri più di noi stessi. Sant’Agostino chiama il vescovo amico dello sposo, amicus sponsi. In inglese diciamo the best man nel matrimonio. Il best man non cerca di far innamorare di lui la sposa, e neppure le damigelle d’onore! Sta ad indicare altro.
In un’occasione un domenicano francese paragonò Dio a un cavaliere inglese che è tanto immensamente discreto da non imporsi in nessun modo su coloro che egli ama. Aprirà la porta e si affaccerà per assicurarsi che stanno bene col loro presente innamorato e dopo, per quanto desidererebbe rimanere, sparirà per non disturbarli.
Come disse C. S Lewis, «È un privilegio divino essere sempre non tanto l’amato quanto l’amante» (op. cit. 184). Dio è sempre quello che ama di più di quello che è amato. Può darsi che sia proprio questa la nostra vocazione. Auden ha detto: «Se l’amore non può essere paritario, che sia io quello che ama di più» (Collected Shorter Poems 1927 -1957 London 1966 p. 282).
Questo implica rifiutarsi di lasciare che le persone diventino troppo dipendenti da qualcuno e non occupare il posto centrale delle loro vite. Uno deve sempre cercare altre forme di sostegno alla gente, altri pilastri, affinché noi possiamo smettere di essere tanto impananti. Così la domanda che uno deve sempre farsi è: il mio amore sta rendendo questa persona più forte, più indipendente, o la sta rendendo più debole e dipendente da me?

sabato 12 luglio 2014

Salmo 39 (38)



E’ un Salmo tra i più espressivi della lamentazione che accompagna la tragica realtà della vita. E’ una riflessione sul limite creaturale, ma che nel sottofondo ha pur sempre fede e quindi fiducia in Dio.
Il Salmo 39 (38) è una composizione biblica che si avvicina a quella di Giobbe e a quella del Qohelet. La parola ebraica che nel Qohelet viene tradotta con “vanità”, qui la troviamo ripetuta nei vv. 6.7.12 con il termine “soffio”, e il Salmo è come una testimonianza di quell’eterno respiro di dolore che mai si spegne sulla faccia della terra.
La simbologia semplice e asciutta che l’autore usa per sviluppare il suo canto si articola sull’antitesi di silenzio-parola, di espressioni che richiamano la vita ma anche la sua fine.
Sembra che nella prima parte il Salmo insegni agli ascoltatori la necessità di conoscere la propria miseria per evitare l’orgoglio, e nella seconda la necessità di conoscere Dio per evitare la disperazione.
L’iniziale riferimento del Salmista al silenzio è motivato sia dal timore che l’empio tragga motivo dal dolore per disprezzare Dio, sia dallo sconvolgimento che il dolore produce nel cuore umano.
Il silenzio produce poi un’esplosione che non si può contenere. Al soliloquio segue il dialogo.
Nella seconda parte del Salmo si parla ancora del silenzio, ma non più davanti al mistero dell’esistere, piuttosto davanti all’azione di Dio, manifestando una positiva intuizione della superiore logica divina.


Ho detto: "Veglierò sulla mia condotta
per non peccare con la mia lingua;
porrò un freno alla mia bocca
mentre l'empio mi sta dinanzi".
Sono rimasto quieto in silenzio: tacevo privo di bene,
la sua fortuna ha esasperato il mio dolore.
Ardeva il cuore nel mio petto,
al ripensarci è divampato il fuoco;
allora ho parlato:
"Rivelami, Signore, la mia fine;
quale sia la misura dei miei giorni
e saprò quanto è breve la mia vita".
Vedi, in pochi palmi hai misurato i miei giorni
e la mia esistenza davanti a te è un nulla.
Solo un soffio è ogni uomo che vive,
come ombra è l'uomo che passa;
solo un soffio che si agita,
accumula ricchezze e non sa chi le raccolga.
Ora, che attendo, Signore?
In te la mia speranza.
Liberami da tutte le mie colpe,
non rendermi scherno dello stolto.
Sto in silenzio, non apro bocca,
perché sei tu che agisci.
Allontana da me i tuoi colpi:
sono distrutto sotto il peso della tua mano.
Castigando il suo peccato tu correggi l'uomo,
corrodi come tarlo i suoi tesori.
Ogni uomo non è che un soffio.
Ascolta la mia preghiera, Signore,
porgi l'orecchio al mio grido,
non essere sordo alle mie lacrime,
poiché io sono un forestiero,
uno straniero come tutti i miei padri.
Distogli il tuo sguardo, che io respiri,
prima che me ne vada e più non sia.