sabato 28 dicembre 2013

SALMO 9-10

Nelle tradizioni ebraiche e nelle successive versioni questo salmo era stato suddiviso in due parti, però era unito nella versione greca cosiddetta dei LXX. Uno dei motivi che privilegia l’unità del salmo è il suo carattere acrostico, frequente nella composizione poetica orientale.

Questo salmo è stato definito “il manifesto degli anawim”, è una preghiera dei poveri.

Il significato originale della parola ebraica “anawim” sembra richiamare il gesto del curvarsi, simbolo di una situazione di povertà. Il successivo uso biblico e quindi religioso fa però riferimento a persone discrete, umili, sottomesse, miti, che esprimono un atteggiamento di sottomissione fiduciosa verso Dio. Anche nelle altre parole ebraiche sinonime di “anawim”, risultano presenti entrambi gli aspetti, quello sociale e quello teologico, molto usati anche dai profeti: i poveri socialmente e gli umili.

Qui i protagonisti del salmo sono: il povero, Dio che è re e giudice, le nazioni. Il tema è quello affrontato anche da altri salmi: come può Dio tollerare il male e permettere la sofferenza del povero e dell’innocente? Al centro dell’attenzione viene posto il povero, verso cui convergono sia l’interesse maligno dell’empio sia quello benefico di Dio.

L’esposizione dei contenuti è un po’ faticosa, ma l’atteggiamento che attraversa il salmo è quello del lamento, che però nella Bibbia non è mai totalmente pessimista e contiene anche la speranza e il ringraziamento. E’ importante nel salmo 9-10 anche il riferimento alla regalità di Jahweh. Dio, giudice giusto, è “rifugio” del povero.

Di questo salmo, molto ampio, vengono qui riportati alcuni versetti iniziali e alcuni conclusivi.

Loderò il Signore con tutto il cuore
e annunzierò tutte le tue meraviglie.
Gioisco in te ed esulto,
canto inni al tuo nome, o Altissimo.

Mentre i miei nemici retrocedono,
davanti a te inciampano e periscono,
perché hai sostenuto il mio diritto e la mia causa;
siedi in trono giudice giusto.
-------
Sorgi, Signore, alza la tua mano,
non dimenticare i miseri.
Perché l'empio disprezza Dio
e pensa: "Non ne chiederà conto"?

Eppure tu vedi l'affanno e il dolore,
tutto tu guardi e prendi nelle tue mani.
A te si abbandona il misero,
dell'orfano tu sei il sostegno.
Spezza il braccio dell'empio e del malvagio;
Punisci il suo peccato e più non lo trovi.
Il Signore è re in eterno, per sempre:
dalla sua terra sono scomparse le genti.

Tu accogli, Signore, il desiderio dei miseri,
rafforzi i loro cuori, porgi l'orecchio
per far giustizia all'orfano e all'oppresso;
e non incuta più terrore l'uomo fatto di terra.

giovedì 26 dicembre 2013

Dal risentimento alla gratitudine

Arriviamo all'Eucaristia con il cuore spezzato da molte perdite, le nostre ed anche quelle del mondo. E così che comincia il viaggio. Come i due discepoli di Emmaus che tornavano a casa al loro vil­laggio, diciamo: «Noi speravamo... ma abbiamo perso la speranza».”
L’Eucaristia, ci ricorda Nouwen nel libro “La forza della sua presenza”, inizia con questo riconoscere il nostro cuore ferito e il risentimento che ci portiamo dentro.
“Quando siamo colpiti da una perdita die­tro l'altra, è molto facile diventare disillusi, arrabbia­ti, amareggiati e sempre più pieni di risentimento. E’ una delle forze più distruttive del­la nostra vita. È la rabbia fredda che si è sistemata al centro del nostro essere indurendo il nostro cuore. Spesso mi chiedo come potrei vivere se non ci fos­se per niente del risentimento nel mio cuore. Sono così abituato a parlare delle persone che non mi píacciono, a nutrire i ricordi degli eventi che mi hanno causato tanto dolore o ad agire con sospetto e paura, che non so come sarebbe se non ci fosse nulla di cui lamentarsi e nessuno di cui brontolare!”
Ma l’Eucaristia ci offre la possibilità di non scegliere il risentimento: “Piangere le nostre perdite è il primo passo dal risentimento verso la gratitudine. Le lacrime del no­stro dolore possono ammorbidire il nostro cuore in­durito e aprirci alla possibilità di dire 'grazie'.”
Eucaristia significa letteralmente 'azio­ne di rendimento di grazie', per cui celebrare l'eucaristia e vivere una vita eucaristica hanno a che fare con la gratitudine: vuol dire vivere la vita come un dono, per il quale si è grati.
“Ma la gratitudine non è la risposta più spontanea al­la vita, certamente non quando sperimentiamo la vi­ta come una serie di perdite! Eppure.. attraverso il pianto per le nostre perdite giungiamo a conoscere la vita come un dono. La bellezza e la preziosità del­la vita sono intimamente connesse alla sua fragilità e mortalità.
L’invocazione “Signore, pietà” è il grido di misericordia del popolo di Dio con cui inizia ogni Eucaristia, ma è una richiesta  possibi­le soltanto quando siamo disposti a confessare che in qualche modo, da qualche parte, noi stessi abbiamo qualcosa a che fare con le nostre perdite. Chiedere pietà è riconoscere che prendersela con Dio, con il mondo o con gli altri per le nostre perdite non ren­de piena giustizia alla verità di chi noi siamo. Al mo­mento siamo disposti ad assumerci la responsabilità anche del dolore che non abbiamo causato diretta­mente; il biasimo viene allora convertito in un rico­noscimento del nostro ruolo nella rottura e nella pro­strazione umane… frutto amaro della scelta umana di dire 'no' all'amore.”
Celebrare l'eucaristia è accettare la nostra corresponsabilità per il male che ci circonda e scegliere una vita di perdono, di pace: non lasciarci paralizzare dalle nostre perdite e credere che nel profondo di noi coltiviamo un desiderio di unità, di comunione, di amore.
“Ma nessun pecca­to può essere affrontato senza una qualche conoscenza della grazia. Nessuna perdita può essere rimpianta senza una qualche intuizione che troveremo nuova vi­ta. Quando i discepoli sulla via di Emmaus racconta­rono la loro storia riguardante la loro grande perdi­ta, essi raccontarono anche quella strana storia delle donne che avevano trovato la tomba vuota e che ave­vano visto degli angeli. Ma essi erano scettici e dub­biosi. Questo è in genere il nostro approccio all'eucari­stia. Con uno strano miscuglio di disperazione e speranza.”
«Signore, pietà; Signore, pietà; Signore, pietà». E’ la preghiera che continua ad emergere dalla profondità del nostro essere e a sfondare le pareti del nostro cinismo.

Sì, a volte ci sembra che tutto sia perduto e non rimanga niente delle no­stre speranze e dei nostri sogni. “Eppure c'è una vo­ce: «Ti basta la mia grazia» e noi chiediamo di nuo­vo la guarigione del nostro cuore cinico e osiamo cre­dere che veramente, in mezzo al nostro pianto, pos­siamo trovare un dono di cui essere grati.”

mercoledì 25 dicembre 2013

domenica 22 dicembre 2013

Andiamo a Betlem



Andiamo fino a Betlem, come i pastori.  L'importante è muoversi.
Per Gesù Cristo vale la pena lasciare tutto: ve lo assicuro. E se, invece di un Dio glorioso, ci imbattiamo nella fragilità di un bambino, con tutte le connotazioni della miseria, non ci venga il dubbio di aver sbagliato percorso.
Perché, da quella notte, le fasce della debolezza e la mangiatoia della povertà sono divenuti i simboli nuovi dell'onnipotenza di Dio. Anzi, da quel Natale, il volto spaurito degli oppressi, le membra dei sofferenti, la solitudine degli infelici, l'amarezza di tutti gli ultimi della terra, sono divenuti il luogo dove egli continua a vivere in clandestinità.
A noi il compito di cercarlo.
E saremo beati se sapremo riconoscere il tempo della sua visita.
Mettiamoci in cammino, senza paura.
Il Natale di quest'anno ci farà trovare Gesù e, con Lui, il bandolo della nostra esistenza redenta, la festa di vivere, il gusto dell'essenziale, il sapore delle cose semplici, la fontana della pace, la gioia del dialogo, il piacere della collaborazione, la voglia dell'impegno storico, lo stupore della vera libertà, la tenerezza della preghiera.
Allora, finalmente, non solo il cielo dei nostri presepi, ma anche quello della nostra anima sarà libero di smog, privo di segni di morte, e illuminato di stelle.
E dal nostro cuore, non più pietrificato dalle delusioni, strariperà la speranza.
Don Tonino Bello

sabato 21 dicembre 2013

SALMO 8

Questo salmo fu usato nella circostanza dello sbarco umano sulla luna. Questo fatto però suscitò delle discussioni. Effettivamente è una preghiera rischiosa, soprattutto se è letta nello spirito tecnicistico del nostro tempo. Il dominio dell’uomo peccatore sul nostro pianeta si rivela spesso come una tirannia.
L’autore del salmo non esprime sensazioni ed emozioni nate dalla fantasia, ma concetti limpidissimi, a lungo meditati e poi diventati poesia e preghiera.

I tre protagonisti del salmo 8 sono Dio, l’uomo, il cosmo, esso esprime consonanza con altri salmi della natura e con la poesia extrabiblica antica. Nella religiosità ebraica è però importante il legame storia-creazione, anzi il tema della creazione è funzionale rispetto a quello centrale della salvezza storica. Il Dio creatore è la logica premessa del Dio liberatore e salvatore.
Il credente israelita, nel confronto con le religiosità dei popoli circostanti, doveva anche superare la tentazione del naturalismo ateo e del panteismo, stabilendo un chiaro rapporto gerarchico tra Dio, l’uomo e la natura.
Collocato all’interno di una “cornice” notturna, il salmo 8 è una preghiera dominata dallo stupore che l’essere umano suscita per la sua ineguagliabile grandezza, ma il salmo è anzitutto una esaltazione di Jahweh, che traspare dall’insistente uso degli aggettivi, pronomi e verbi riferiti al TU, Signore nostro Dio.
Contemplando la creazione nasce la grande domanda: che cos’è l’uomo, dentro la grande opera di Dio? C’è una percezione di sproporzione tra l’uomo e l’universo, ma Dio ha cura di lui, lo ha coronato di gloria… Il salmo 8 inizia e finisce con l’acclamazione al Nome, quindi alla persona stessa di Dio, come un ritornello di fede e di lode.

O Signore, nostro Dio,
quanto è grande il tuo nome
su tutta la terra:
sopra i cieli si innalza la tua magnificenza.

Con la bocca dei bimbi e dei lattanti
affermi la tua potenza contro i tuoi avversari
 per ridurre al silenzio nemici e ribelli.

Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissate,
che cosa è l’uomo perché te ne ricordi
e il figlio dell’uomo perché te ne curi?

Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli,
di gloria e di onore lo hai coronato:
gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,
tutto hai posto sotto i suoi piedi;

tutti i greggi e gli armenti,
tutte le bestie della campagna;
gli uccelli del cielo e i pesci del mare,
che percorrono le vie del mare.

O Signore, nostro Dio,
quanto è grande il tuo nome

su tutta la terra!

giovedì 19 dicembre 2013

..Si fermarono col volto triste..



Dicevamo giovedì scorso che Nouwen usa come base per le sue riflessioni sull’Eucaristia il brano dei due discepoli che vanno da Gerusalemme a Emmaus dopo la morte di Gesù. Due persone che tornano sconsolate, disilluse, tristi verso una casa che non sentono più loro. Pochi anni prima avevano seguito “quel forestiero” che aveva portato vita nella loro vita, che “li aveva trasformati in per­sone per le quali il mondo non era più un peso, ma una sfida, non più una terra piena di insidie, ma un luogo con infinite opportunità. Egli aveva portato gioia e pace nella loro esperienza quotidiana. Aveva trasformato la loro vita in una danza!”. Ma adesso… “Tutto era diventato nullità. Essi lo avevano perduto. Non soltanto lui, ma, con lui, anche se stessi.. Era­no diventati due esseri umani perduti che cammina­vano verso casa senza avere una casa...”
Per molti aspetti noi siamo come loro. Lo capiamo quando osiamo guardare dentro il centro del nostro essere e là incontriamo il nostro smarrimento. Non siamo sperduti anche noi? Se c'è una parola che riassume bene il nostro dolore questa è ‘perdita’. Abbiamo perduto così tanto!”
A volte abbiamo l’impressione che tutta la nostra vita sia una lunga serie di perdite, dalla sicurezza dei genitori alla libertà dell’infanzia, dalla giovinezza alla bellezza, dai nostri amici ai nostri affetti, dalla salute al perdere tutto della morte.
E queste perdite fanno parte della vita ordinaria! Le perdite che si sistemano in profondità nel nostro cuore e nella nostra mente so­no la perdita di intimità a causa delle separazioni, la perdita di sicurezza a causa della violenza, la perdita dell'innocenza a causa di maltrattamenti, la perdita di amici a causa del tradimento, la perdita dell'amore a causa dell'abbandono...nes­suno può sfuggire alle dolorose perdite che fanno par­te della nostra esistenza quotidiana – la perdita dei nostri sogni. (..)Siamo diventati persone inquiete, ansiose e ci aggrappiamo alle poche cose che ave­vamo raccolto... È questa per­dita di spirito ad essere spesso la più dura da rico­noscere e la più difficile da confessare.”
Ancora più in profondità, spesso siamo feriti dalla perdita della fede, ossia dal perdere la convinzione che la nostra vita abbia un significato. Ricordiamo il tempo in cui Gesù era così reale per noi da non esserci alcun dubbio circa la sua presenza nella nostra vita. Era il nostro amico più in­timo, nostro consigliere e nostra guida. Ci dava confor­to, coraggio e fiducia in noi stessi. Potevamo sentir­lo, sì, gustarlo e toccarlo.” Ma poi.. senza sapere come, ci scopriamo a non riconoscerlo più, in qualche modo lo abbiamo perso, non riscalda più il nostro cuore.
“Non sto cercando di dire che tutte queste perdite toccheranno la vita di ognuno di noi. Ma mentre cam­miniamo insieme e ci ascoltiamo l’un l’altro possiamo ben presto scoprire che molte, se non la maggior par­te, di queste perdite fanno parte del viaggio, del no­stro viaggio o del viaggio dei nostri compagni.”
Che cosa possiamo fare allora davanti alle nostre perdite?
Il più delle volte le nascondiamo, non le raccontiamo ai nostri compagni di viaggio, oppure le minimizziamo o non le consideriamo reali. “.. ma c'è un'altra possibilità: la possibilità di piangere. Sì! Dobbiamo piangere le nostre perdite. Non pos­siamo dire o fingere che non ci siano, ma possiamo versare lacrime su di loro e permettere a noi stessi di affliggerci profondamente. Affliggersi significa per­mettere alle nostre perdite di lacerare i sentimenti di sicurezza e protezione e di condurci alla dolorosa ve­rità della nostra rottura, della nostra prostrazione. Il nostro dolore ci fa sperimentare l'abisso della nostra vita in cui nulla c'è di sistemato, chiaro, ovvio e tut­to è in costante movimento e cambiamento”.
E mentre piangiamo per le nostre perdite, il dolore ci apre al pianto e all’afflizione di tutta l’umanità sofferente.
“Ma in mezzo a tutto questo dolore c'è una voce strana, scioccante e tuttavia sorprendente. È la voce di colui che dice: «Beati gli afflitti, perché saranno consolati».
È la notizia inaspettata: c'è una benedi­zione nascosta nella nostra sofferenza! In qualche modo, in mezzo alle nostre lacrime è nasco­sto un dono.
In qualche modo, in mezzo alla nostra afflizione hanno luogo i primi passi della danza.
In qualche modo, il pianto che sgorga dalle nostre per­dite appartiene ai nostri canti di gratitudine.”

martedì 17 dicembre 2013

Perchè pregare?



La preghiera è un incontro di persone che si amano e come ogni autentico rapporto d’amore (amicizia, sposalizio, maternità, paternità) ha bisogno di frequentazioni assidue per crescere. Allora perché pregare? Mons. Bruno Forte risponde Per vivere. Perchè vivere è amare: una vita senza amore non è vita. La preghiera è la scuola dell’amore”. È, infatti, se si può dire, un bisogno fisiologico del nostro cuore. Mentre il digiuno corrobora ed irrobustisce il dominio del nostro corpo, l’assenza di preghiera indebolisce il nostro spirito a tal punto da farci razzolare tra le nostre prigionie umane, quando invece la nostra anima è stata formata per elevarsi come un’aquila. La preghiera è il cibo ordinario della nostra vita spirituale, è l’ossigeno per la nostra anima, l’indicatore del suo stato di salute. Incontrandoci potremmo quasi chiederci: “Come sta la tua preghiera?”

 
Fr. Timothy Radcliffe, op, parlando della vita di preghiera nella sua lettera all’Ordine Domenicano “La promessa di vita”, dice che: “Nella tradizione Domenicana, parlare a Dio è prima di qualsiasi altra cosa chiedere ciò di cui abbiamo bisogno. Questo non è puerile, ma realismo. Dimostra che ci stiamo svegliando dal piccolo mondo fantasioso del mercato, nel quale tutto è in vendita, e riconosciamo che nel mondo reale ogni cosa è un dono da parte di Colui che è la “sorgente di tutto ciò che è bene per noi. Quando cominciamo a chiedere, siamo sulla via della maturità. Quando preghiamo insieme, osiamo chiedere a Dio quello che più profondamente desideriamo? (..)
Il buon pastore, che è venuto perché abbiamo la vita e più in abbondanza, è colui che apre la porta, perché noi possiamo uscire e trovare grandi spazi aperti. Nella preghiera noi operiamo un esodo, al di là del minuscolo guscio della nostra auto-ossessione. Entriamo nel più vasto mondo di Dio. La preghiera è una “disciplina che mi blocca dal ritenermi in modo scontato come il centro di un piccolo universo, e mi permette di trovare, perdere e ritrovare me stesso costantemente nei disegni intessuti di un mondo che io non ho fatto e non controllo”. ”

lunedì 16 dicembre 2013

Vieni sempre!



Vieni di notte,
ma nel nostro cuore è sempre notte:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni in silenzio,
noi non sappiamo più cosa dirci:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni in solitudine,
ma ognuno di noi è sempre più solo:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni, figlio della pace,
noi ignoriamo cosa sia la pace:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni a liberarci,
noi siamo sempre più schiavi:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni a consolarci,
noi siamo sempre più tristi:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni a cercarci,
noi siamo sempre più perduti:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni, tu che ci ami,
nessuno è in comunione col fratello
se prima non lo è con te, Signore.
Noi siamo tutti lontani, smarriti,
né sappiamo chi siamo, cosa vogliamo:
vieni, Signore.
Vieni sempre, Signore.

(Padre David Maria Turoldo)