martedì 1 luglio 2014

Elogio di una laicità possibile




A partire da questo martedì pubblicheremo per qualche settimana articoli un po' più impegnativi del solito negli argomenti trattati e nel linguaggio usato per spiegare.

Ci auguriamo possano essere l'occasione di un'attenta e profonda lettura, che stimoli riflessioni e pensieri su questioni importanti per l'umanità e per la cristianità, che sempre più oggigiorno trovano spazio in ambienti culturali laici e religiosi e per le quali non c'è una risposta ultima.
Se qualcuno desidera condividere con noi pensieri, riflessioni, domande o altro lasci scritto un post e saremo ben contente di parlarne con voi.





di GIORGIO FAZIO
Nel suo ultimo libro, “Elogio della felicità possibile” (Donzelli), Orlando Franceschelli raccoglie la sfida di rispondere alla domanda circa cosa può significare, per un non credente, approdare ad una visione del mondo e dell’uomo adulta, ma senza Dio. Ne viene fuori un ateismo maturo, capace di concentrarsi sul versante propositivo e costruttivo della propria visione del mondo.
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«Dio, inteso come ipotesi di lavoro morale, politica, scientifica, è eliminato, superato (..) E non possiamo essere onesti senza riconoscere che dobbiamo vivere nel mondo – etsi deus non daretur».[1] Sono le celebri parole affidate da Dietriech Bonhoeffer a una delle sue ultime lettere di argomento teologico, scritte in carcere, poco prima di essere assassinato per mano nazista, per l´accusa – fondata – di aver partecipato a una cospirazione per eliminare Hitler. «Siamo diventati adulti», veniamo a capo «anche senza Dio» di tutte le questioni etiche ed esistenziali: questo era il messaggio depositato in bottiglia, poco prima della sua morte, dal teologo protestante. Un messaggio rivolto in primis a tutti i cristiani: l´autonomia della coscienza moderna nei confronti dei «concetti biblici», la ragione critica, la scienza, l´analisi della società e dell’io, osservava Bonhoeffer, ci hanno fatto diventare maggiorenni che non cercano più la mano del padre per stare in piedi, ma stanno in piedi da soli, decidono da soli, scegliendo e pagandone il prezzo. «Come se Dio non ci fosse».[2] Naturalmente, per il credente Bonhoeffer, Dio, il Cristo e la sua passione, continuavano a rimanere il senso del tutto, l’orizzonte e la bussola d´orientamento, ciò su cui l´uomo deve misurare la sua esperienza storico-mondana. Di questa esperienza, però, l´uomo divenuto adulto, secondo il teologo, deve ormai assumersi, nel tempo moderno, tutta la responsabilità, attraversando da solo i labirinti della storia, come il Cristo: senza ricorrere più a un “Dio tappabuchi”, a una religiosità querula e consolatoria che distrae da un impegno integrale nel mondo.
Ogni volta che si parla di credenti impegnati a «divenire adulti», a vivere una fede disposta a farsi carico del moderno “ateismo metodologico”, ad aprirsi cioè costruttivamente al compito di fronteggiare laicamente le sfide in cui si trovano coinvolte le nostre società sempre più globali e meticce, il pensiero corre, o dovrebbe correre, a queste ultime lettere di Bonhoeffer, vero e proprio vertice della riflessione teologica novecentesca. Ma a queste lettere il pensiero dovrebbe correre anche ogni volta che si afferma che il cristianesimo non può costitutivamente aprirsi ai principi moderni del pluralismo e della laicità. L’esortazione rivolta ai cristiani a vivere “a cospetto di Dio” ma “senza Dio”, era accompagnata infatti dal teologo protestante da un monito fondamentale: «è semplicemente falso che solo il cristianesimo abbia una soluzione» per tutte le questioni etiche ed esistenziali.[3]
Ma il messaggio radicale di Bonhoeffer parla poi davvero soltanto ai credenti e ai cristiani? Un non credente, di fronte alla sua testimonianza, può sentirsi anche lui, in qualche modo, chiamato in causa? Può sentirsi sollecitato a sottoporsi anche lui al parametro dell’“adultità” e chiedersi, per esempio, cosa possa significare approdare ad un ateismo divenuto adulto? E ancora: può giungere alla conclusione che proprio dalla risposta a questa domanda ne va della possibilità di un dialogo franco con i credenti, un dialogo nel quale ciascuno, impegnandosi a dire «il meglio di sé stessi», stabilisca le irriducibili differenze, ma nello stesso tempo provi a valorizzare i possibili punti di incontro, al fine di promuovere un impegno comune, su questa terra, per la libertà e la giustizia?
È precisamente muovendo da queste domande che si snoda il percorso di riflessione proposto dal filosofo Orlando Franceschelli nel suo bel libro Elogio della felicità possibile (Donzelli). Proprio a Bonhoeffer, non a caso, Franceschelli – non credente che non sente «né bisogno né nostalgia di Dio» e che tuttavia si riconosce laicamente «simile del buon samaritano» – più di una volta si richiama nel corso del suo testo. E ciò non solo per valorizzare – dal suo punto di vista – una delle esperienze più avanzate di apertura del mondo cristiano ai principi del pluralismo e della laicità. Franceschelli si richiama al teologo protestante anche per raccogliere la sfida di rispondere alla domanda circa cosa può significare, per un non credente, approdare ad una visione del mondo e dell’uomo adulta, ma senza Dio. Ciò nella convinzione che dalla risposta a questa domanda ne va di un «dialogo sottratto ad ogni equivoco che impoverisca la costruttiva sinergia che a favore della saggezza e della stessa felicità terrene», credenti e non credenti, «laicamente e da simili del buon samaritano, possono concorrere a far crescere nel pluralismo tipico dell’odierna sfera pubblica».[4] Dire il meglio di sé stessi da una parte e dall’altra aiuta a chiarire le differenze, a dissipare gli equivoci che nascono da improprie e illegittime contaminazione, ma aiuta anche a riconoscere i punti d’incontro, che più che nelle teorie sono situati nelle prassi concrete, dove il criterio della distinzione tra credenti e non credenti può benissimo saltare, e dove persone appartenenti ad una stessa “comunità” possono tranquillamente scoprire di trovarsi su fronti politici contrapposti.
Lasciamo allora per un momento da parte Bonhoeffer e proviamo a chiederci cosa può significare concretamente un ateismo divenuto adulto. Franceschelli ha in proposito idee molto chiare: un ateismo divenuto adulto è un ateismo che ha smesso di essere “militante”, che non considera più, cioè, come suo compito principale quello di negare Dio, di essere semplice negatore del teismo (a-teismo). È un ateismo che non è più un avversario ideologico dell’esperienza religiosa, come tale destinato a rimanere fatalmente legato alle verità e ai valori che intende negare, di cui magari finisce per restituirne una visione semplicemente «secolarizzata». Un ateismo divenuto adulto considera piuttosto «ampiamente assolto questo compito» distruttivo e, guardando alla religione come a un «fenomeno naturale», si concentra sul versante propositivo della propria visione del mondo, «che per essere realmente tale ha bisogno non tanto di militanza a-teista, ma del conforto di evidenze empiriche, di argomenti validi, di condotte pratiche che sobriamente comunichino la plausibilità e la saggezza»[5] della propria idea dello stare al mondo senza Dio. Il percorso filosofico proposto da Franceschelli tenta allora di declinare concretamente questi principi, nella convinzione dell’importanza oggi – anche di fronte alle «nuove sensibilità dialogiche di papa Francesco» – di compiere un’opera di chiarificazione e di distinzione, con sobrietà e senza pose polemiche, delle reali differenze tra una coerente e propositiva visione del mondo e dell’uomo senza Dio e quella invece propria di chi, ancorché impegnato a rimanere «fedele alla terra», confida in un Dio.
Il primo suggerimento di Franceschelli, per approdare a questo ateismo divenuto adulto, è quello di cambiargli nome: di non chiamarlo più “ateismo” ma, semplicemente, “naturalismo”. Ed è infatti proprio muovendo da una suggestiva riflessione sul «principio natura» che egli dà avvio al suo percorso propositivo, finalizzato ad approdare dalla «natura» alla «saggezza» e da questa, infine, ad un’idea – e a una prassi – di «felicità possibile». A mostrare insomma che anche chi il dono della fede non ce l´ha non per questo deve rinunciare alla prerogativa – e alla responsabilità – di interrogarsi – e di dare risposte plausibili – alle domande ultime sul senso della vita.
Franceschelli è aperto al dialogo, quindi, ma non per questo è disposto ad arretrare di un solo passo da una tesi fondamentale: l´odierno naturalismo costituisce la vera e propria alternativa filosofica del teorema-creazione, così come di ogni prospettiva che crede di riconoscere alla base dell’esistenza del mondo cause e fini superiori. Di più, il naturalismo costituisce l’alternativa «più plausibile», per lo meno sulla base di «quanto la comunità scientifica ci dice a proposito dell’evoluzione dell’universo e della vita che esso ospita, inclusa l´emergenza della complessa natura di Homo sapiens».[6]
Da buon filosofo, Franceschelli non cade nell’equivoco di spacciare una coerente visione naturalistica del mondo e dell’uomo come qualcosa di scientificamente dimostrabile. Risulta semplicemente impraticabile – egli puntualizza – «caricare sulle spalle della ricerca scientifica anche il compito di fornire» risposte definitive alle domande ultime che la mente umana solleva al cospetto della realtà sensibile che di fatto esiste: «è una realtà autarchica o è l´opera di un Dio che l´ha creata in vista di uno scopo ultimo? E ancora: quale senso possiamo attribuire a questa totalità bio-cosmica a cui anche le nostre vite appartengono?».[7] Rispondere a queste domande è compito precipuo della libertà della scepsi filosofica. Al bando quindi ogni scientismo e ogni “religione della scienza”, che alla fine non fanno altro che riversare surrettiziamente sulle ricerche sperimentali le speranze di salvezza annunciate dalle fedi. E tuttavia, fatta salva l’irriducibile differenza tra scienza e argomentazione filosofica, è pur vero, egli ammonisce, che una discussione filosofica su queste domande non può non interagire costantemente con i risultati scientifici man mano disponibili e non può non essere fondata su procedure argomentative razionali e condivisibili. E posto che una prospettiva filosofica è «plausibile», ossia condivisibile da tutti i protagonisti del confronto critico nel quale viene dibattuta, nella misura in cui soddisfa il duplice criterio della compatibilità con la scienza e della validità argomentativa, allora proprio a questi criteri risponde al meglio il naturalismo filosofico.
Ma cosa va inteso dunque con naturalismo filosofico? Con indubitabile eleganza argomentativa, Franceschelli affida l´esplicazione del «principio natura» a un trinomio: autarchia ontologicacontingenza evolutiva esovrumanità della realtà fisica. Un trinomio che costituisce l´esatto rovesciamento di quello che, come egli argomenta, sta alla base di qualsiasi visione del mondo classicamente teistica: contingenza ontologica del mondo, evoluzione teleologica e provvidenziale dell’universo-creazione, antropocentrismo.
Cominciamo allora con l’«autarchia ontologica». Se «con l´espressione materia-energia si designa abitualmente l´attuale visione scientifica della realtà fisica, che include anche l’esistenza di onde, particelle, campi elettrici caratterizzati non dalla loro massa ma dall’energia», l´odierno naturalismo filosofico ritiene compatibile con questi dati scientifici e validamente argomentata – «plausibile», appunto – la prospettiva secondo cui la stessa esistenza della materia-energia è radicalmente indipendente da cause e fini sia soprannaturali che umani. «Concepisce insomma la materia-energia come una realtà che esiste a sé, ossia ha in se stessa anche il primo e unico fondamento, sia temporale che causale, della propria esistenza».[8] Da qui il secondo termine del trinomio: per il naturalismo filosofico o ontologico la materia-energia è non solo autarchica ma anche una realtà fisica in continua evoluzione. È insomma anche la fonte di una fucina cosmica da cui emerge tutto ciò che nella realtà empirica è effettivamente contenuto, fino all’emergenza di Homo sapiens. Precisamente questa idea di fucina cosmica consente di cogliere «il carattere contingente dei processi evolutivi della materia-energia». «La contingenza riguarda anche le regolarità o leggi (contingenza nomologica) che certamente sono presenti in natura e nello stesso caos deterministico, ma che per operare ed essere osservate presuppongono proprio la sequenza di eventi contingenti a cui sopravvengono, ossia dal cui accadimento iniziale e marginale comunque finiscono per dipendere».[9] Infine la terza acquisizione del naturalismo ontologico: la sovrumanità della natura. «Se è plausibile ritenere che l´esistenza della materia-energia è autarchica e i suoi processi evolutivi sono contingenti, allora diventa a dir poco problematica ogni concezione teleologica della realtà naturale».[10] Più determinatamente: ogni concezione teleologica o filosofica secondo cui una simile contingenza sarebbe finalizzata al raggiungimento di una meta ultima (escatologia) o all’apparizione o non-estinzione della nostra specie (antropocentrismo).
Con questo trinomio, dunque, Francheschelli ritiene dimostrata la maggiore plausibilità del naturalismo ontologico rispetto alla prospettiva della creaturalità del mondo e dell’uomo, nella quale «la realtà empirica diventa la protagonista, più o meno docile, della provenienza dal nulla (assoluto o privativo) e delle metamorfosi salvifiche cui la chiamerebbe la volontà di un Dio, (futurismo ontologico)».[11] Ed è in fondo proprio per combattere questo «nichilismo cosmologico» – che albergherebbe, a suo parere, non in una visione a-teleologica e a-finalistica del principio-natura, ma al contrario in ogni visione teleologica della natura – che egli plaude, richiamandosi al filosofo Karl Löwith, ad un’emancipazione dal trinomio Dio-uomo-mondo e ad un approdo al binomio mondo-uomo. Una prospettiva, quest’ultima, che a dispetto della rivendicazione da parte cattolica del «monopolio di un corretto uso della ragione umana», risulta per il filosofo la più plausibile, proprio alla luce dei criteri, soltanto umani, della scienza, della scepsi, e della plausibilità.
Operata una “rasoiata” sul piano cosmologico nei confronti delle funzioni attribuibili a entità e agenti soprannaturali, Franceschelli passa a dimostrare come una stessa “rasoiata” la prospettiva del naturalismo ontologico riesce a darla anche relativamente alle domande fondamentali che concernono, più specificamente, l´origine, l´evoluzione e la destinazione di Homo sapiens. I sostenitori del mondo principio natura, si legge, devono sentirsi impegnati a delineare un’antropologia non solo compatibile con gli attuali dati scientifici, ma anche filosoficamente argomentata e coerente con la naturalità del mondo riguadagnata a livello ontologico. Quindi, alle celebri e radicali domande sulla reale condizione e importanza della natura e della storia di Homo sapiens -  da dove veniamo?, chi siamo?, dove andiamo? – «l´antropologia dell’ecoappartenenza» consente di rispondere senza mai smarrire la critica consapevolezza di tre acquisizioni fondamentali: «anche noi essere umani veniamo dalla fucina bio-cosmica come tutti gli altri animali, rispetto ai quali siamo portatori di differenze non ontologiche o qualitative, ma soltanto di grado; 2) la nostra natura è complessa ma non ontologicamente dualistica. È insomma costituita da un impasto di biologia e cultura che ci rende da sempre culturali per natura e naturali per cultura; 3) in quanto essere umani siamo destinati, insieme a tutte le nostre produzioni storico-culturali, a rimanere comunque una manifestazione contingente e fragile della realtà fisica da cui siamo emersi».[12]
Illustrata in tutte le sue sfaccettature la portata e la plausibilità del principio natura si tratta quindi di far compiere all’indagine filosofica un passo in avanti: di dimostrare qual è, se c’è, la «saggezza» che questo principio, con la connessa «antropologia dell’ecoappartenenza», consente di coltivare. Si tratta di dimostrare, in altre parole, che una prospettiva senza Dio, come quella propugnata dal naturalismo filosofico, non conduce ad alcun impoverimento dell’umano, a una qualche forma di nichilismo antropologico, ma piuttosto può fondare un’etica, un modo di vivere e comportarsi, saggio e ragionevole. Un ethos, di più, ben attrezzato a misurarsi con i pressanti problemi del presente. Se effettivamente si è preso congedo dalla prospettiva, più o meno antropocentrica, secondo cui nella storia naturale o umana sarebbero inscritti disegni divini e il raggiungimento di un senso-fine ultimo. E se effettivamente si rimane ben consapevoli che ogni vita e ogni opera umana, essendo soltanto una piccola parte di sovrumane vicende bio-cosmiche, risultano sempre segnate e limitate da una contingenza non redimibile, allora l’etica più plausibile, per un naturalista, è quella che induce a valorizzare il contingentehic et nunc del presente, in sostanziale sintonia con la saggezza epicurea (e più in generale classica). Cuore di questa etica, scrive Franceschelli, è l’educazione a vivere e morire senza tradire la radicale precarietà di fronte a cui ci mette la morte. Quindi, si tratta innanzitutto di rimanere vigili nei confronti degli aneliti alla postmortalità che sempre più percorrono la nostra società, anche sull’onda delle aspettative suscitate dalla crescente potenza delle biotecnologie. Di diffidare di ogni futurismo, non solo di quello ontologico ed escatologico, sorretto dalla fede nella salvezza promessa dal creatore provvidente del teismo, ma anche di quello frutto delle moderne secolarizzazioni di queste visioni teologiche del tempo. «E segnatamente di quello oggi forse più insidioso: il futurismo che rischia di ripresentarsi come fatalistica attesa della nuova era trans- o post-umana, resa ormai, a detta degli odierni futurologi, addirittura incombente dal progresso inarrestabile e interconnesso delle tecnologie bioinformatiche«.[13] Le sfide poste dalle odierne innovazioni biotecnologiche vanno affrontate senza appellarsi «né ad alcuna sacralità della natura né ad alcuna ingenua retorica della moderazione». Piuttosto, se è vero che «tra le capacità etico-intellettuali di Homo sapiensrientra anche quella di saper convivere con la contingenza evolutiva e valorizzare il presente», allora è proprio grazie a questa «saggezza del presente» che possiamo imparare a guardare «con responsabile prudenza anche al futuro nostro e a quello delle generazioni che verranno».[14]
Saggezza del presente, dunque. Pur nella consapevolezza che la nuova visione relativistica dello spazio-tempo inaugurata da Einstein finisce per ridurre a illusione la stessa differenza tra passato, presente e futuro, pure, un´etica fondata sul principio natura può educare a morire, ma soprattutto a vivere il tempo di cui ognuno può disporre nel corso della sua vita come una finestra di opportunità: come un tempo debito, da coltivare con saggezza e felicità. Siamo così giunti al terzo termine del percorso teorico scandito dalle tre parole: «realtà naturale», «saggezza» e, appunto, «felicità». Ma di quale felicità deve farsi allora ricercatore – e testimone – un “naturalista adulto”, impegnato a coltivare una saggezza del presente? Franceschelli assume come bussola su quest’ultima questione un’indicazione affidata da Primo Levi alle prime pagine di Se questo è un uomo. La nostra condizione umana, scriveva Levi, testimone della Shoah, è «nemica di ogni infinito». E questo vuol dire sì che «la felicità perfetta non è realizzabile», ma anche la considerazione opposta: «che tale è anche un’infelicità perfetta». Si tratta allora di ripartire da questa visione della «felicità possibile» dell’uomo su questa terra – maturata in un’esperienza di (anti)-eroismo del possibile anche questa volta a contatto con l’abisso nazista – se veramente si vuole parlare ancora, saggiamente, di felicità, senza condannarsi alla superficialità o all’irrilevanza». Saggezza della felicità possibile, Eudaimonia, come la chiamava il pensiero greco: quanto può essere coltivato soltanto a patto di essere consapevoli dei limiti naturali della condizione umana, limiti che la sofferenza e la morte pongono alle nostre gioie. Quanto fiorisce, però, soltanto nell’impegno a valorizzare e godere tutta la felicità che, entro questi limiti, è possibile raggiungere». «Tutta la felicità possibile»: quindi non soltanto la propria, ma anche quella degli altri esseri senzienti. Una saggezza della felicità possibile, spiega Franceschelli, deve essere capace di reinscrivere nel proprio orizzonte etico-antropologico, laico e senza Dio, la Regola Aurea – fai agli altri ciò che vorresti fatto a te – «come anelito e come impegno a fare per la fioritura della felicità di ogni essere senziente tutto ciò che si ritiene possibile e si vorrebbe fosse fatto per la fioritura della propria felicità».[15]
È su questo terreno, infine, che le strade del naturalista adulto e del credente adulto sembrano di nuovo potersi incontrare. Franceschelli ribadisce più volte nel suo testo che l’odierno naturalismo non deve costituire l’avversario ideologico dell’esperienza religiosa, che è impegnato a indagare in quanto manifestazione della natura umana. Questa comprensione della religione come fenomeno naturale, egli ricorda, è ripresa oggi anche dalla neuroteologia, che studia i sistemi bio-cognitivi radicati nella nostra mente dalla storia evolutiva e che influenzano anche l’umana propensione ad avere credenze religiose. Di questa dimensione religiosa fa parte anche la solidale premura del samaritano, universalmente incarnata nell’ammonimento della Regola Aurea a fare agli altri ciò che si vorrebbe fosse fatto a noi stessi. Anche di questa espressione della natura umana i naturalisti devono sentirsi impegnati a ricercare spiegazioni plausibili e tutt’altro che indifferenti nei confronti delle tendenze dei comportamenti solidali che anch’essa può ispirare. Prendersi cura del bene degli altri fa bene anche a sé stessi, amplia le proprie possibilità di vita e di esperienza. Fa sentire più umani. E ciò oggi è dimostrato anche dallo studio dei sistemi bio-cognitivi.
Franceschelli non si vieta però di ricorrere nelle ultime pagine del suo libro anche a un linguaggio teologico, quando deve descrivere la sollecitudine solidaristica che un autentico umanesimo deve coltivare e promuovere per ogni sofferenza. È la solidarietà, egli spiega, nei confronti di «tutti i volti di coloro che patiscono, spesso per i comportamenti di altri uomini, le mortificazioni più avvilenti di ogni aspirazione alla possibile fioritura della loro felicità terrena. Volti non di rado ammutoliti dal dolore. Ma la cui semplice presenza costituisce anche – come bene ci hanno insegnato gli stessi testimoni dell’(anti)eroismo del possibile – una «preghiera» per cui non occorrono necessariamente le parole. E che se, per qualsiasi motivo, si omette di raccogliere, può generare un senso di colpa in grado di spingere persino al suicidio».[16] Tra le voci dell’odierno pluralismo bisogna far rientrare, scrive Franceschelli richiamandosi al teologo tedesco Metz, anche «l’autorità dei sofferenti»: un’autorità che deve sollecitare in ciascuno una cura della memoria della sofferenza o memoria passionis, come la chiamano i teologi.
Con queste ultime affermazioni Franceschelli chiarisce definitivamente cosa intende quando fa appello alla «costruttiva sinergia che a favore della saggezza e della stessa felicità terrene naturalisti e credenti, laicamente e da simili del buon samaritano, possono concorrere a far crescere nel pluralismo tipico dell’odierna sfera pubblica».[17] Ma con queste ultime affermazioni – sia permesso osservare – egli sembra rendere testimonianza di qualcosa di più. In fondo, proprio i prestiti dal “gioco linguistico” teologico a cui egli ricorre nelle ultime pagine del libro sembrano dare conto di un limite cui va incontro, prima o poi, qualsiasi pretesa di articolare una visione del mondo e dell’uomo in tutto e per tutto autosufficiente ed esaustiva – sia questa religiosa o non religiosa. Di più, si potrebbe osservare che questi stessi prestiti linguistici sembrano dimostrare che la «saggezza naturalistica del presente» di Franceschelli, così carica di premurosa sollecitudine per la sofferenza del volto dell’altro e innervata da un impegno per la difesa dei diritti fondamentali di ogni essere umano, non è più la saggezza naturalistica di Epicuro. Tra l’una e l’altra c’è stata la «storia del lunghissimo errore» del cristianesimo, come l’aveva chiamata Nietzsche. Ma emanciparsi da questa storia, persino spiegarla scientificamente, anche per un naturalista divenuto adulto, non può significare – come alla fine sembra mostrare lo stesso Franceschelli – pretendere di tornare all’inizio: come se lo stesso naturalismo non fosse divenuto esso stesso, nel frattempo, un po’ «meticcio», condizionato dalla tradizione nella quale è collocato e dalla quale cerca di emanciparsi. Allora forse, si potrebbe concludere, la vera emancipazione di cui un naturalista adulto – come del resto, da un altro punto di vista, un cristiano divenuto adulto – può e deve dare testimonianza, sta proprio in questa consapevolezza, socratica e dialogica: che lo stesso naturalismo filosofico è «semplicemente» una delle voci del dibattito dell’odierna sfera pubblica pluralistica. Una voce autorevole, altamente «plausibile», che chiede pieno riconoscimento, in un dibattito che deve fondarsi a propria volta sui criteri della ragionevolezza e della plausibilità. Un riconoscimento tanto più doveroso in un paese dove, dentro e fuori le gerarchie ecclesiastiche, si continua a pensare, fuori tempo massimo, che un naturalismo senza Dio non possa fondare un autentico umanesimo, e debba condurre direttamente allo scientismo, al nichilismo, a un deteriore relativismo. Ma appunto «soltanto» una voce, capace di assumere su di sè quel principio della laicità enunciato da Bonhoeffer quando affermava, poco prima di morire, che «è semplicemente falso che solo il cristianesimo abbia una soluzione» per tutte le questioni etiche ed esistenziali.
Giorgio Fazio ha studiato all’Università di Roma “La Sapienza”. Attualmente è fellow della Alexander von Humboldt-Stiftung presso l’Università di Potsdam, dove svolge attività di ricerca sui temi dell’antropologia filosofica e della secolarizzazione. Ha scritto numerosi saggi su Karl Löwith e altre figura del pensiero filosofico tedesco del XX secolo. E’ di prossima uscita la sua monografia Il tempo della secolarizzazione. Saggio su Karl Löwith.

* Articolo tratto dal blog "Il rasoio di Occam" http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2014/06/16/elogio-di-una-laicita-possibile/

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