giovedì 26 dicembre 2013

Dal risentimento alla gratitudine

Arriviamo all'Eucaristia con il cuore spezzato da molte perdite, le nostre ed anche quelle del mondo. E così che comincia il viaggio. Come i due discepoli di Emmaus che tornavano a casa al loro vil­laggio, diciamo: «Noi speravamo... ma abbiamo perso la speranza».”
L’Eucaristia, ci ricorda Nouwen nel libro “La forza della sua presenza”, inizia con questo riconoscere il nostro cuore ferito e il risentimento che ci portiamo dentro.
“Quando siamo colpiti da una perdita die­tro l'altra, è molto facile diventare disillusi, arrabbia­ti, amareggiati e sempre più pieni di risentimento. E’ una delle forze più distruttive del­la nostra vita. È la rabbia fredda che si è sistemata al centro del nostro essere indurendo il nostro cuore. Spesso mi chiedo come potrei vivere se non ci fos­se per niente del risentimento nel mio cuore. Sono così abituato a parlare delle persone che non mi píacciono, a nutrire i ricordi degli eventi che mi hanno causato tanto dolore o ad agire con sospetto e paura, che non so come sarebbe se non ci fosse nulla di cui lamentarsi e nessuno di cui brontolare!”
Ma l’Eucaristia ci offre la possibilità di non scegliere il risentimento: “Piangere le nostre perdite è il primo passo dal risentimento verso la gratitudine. Le lacrime del no­stro dolore possono ammorbidire il nostro cuore in­durito e aprirci alla possibilità di dire 'grazie'.”
Eucaristia significa letteralmente 'azio­ne di rendimento di grazie', per cui celebrare l'eucaristia e vivere una vita eucaristica hanno a che fare con la gratitudine: vuol dire vivere la vita come un dono, per il quale si è grati.
“Ma la gratitudine non è la risposta più spontanea al­la vita, certamente non quando sperimentiamo la vi­ta come una serie di perdite! Eppure.. attraverso il pianto per le nostre perdite giungiamo a conoscere la vita come un dono. La bellezza e la preziosità del­la vita sono intimamente connesse alla sua fragilità e mortalità.
L’invocazione “Signore, pietà” è il grido di misericordia del popolo di Dio con cui inizia ogni Eucaristia, ma è una richiesta  possibi­le soltanto quando siamo disposti a confessare che in qualche modo, da qualche parte, noi stessi abbiamo qualcosa a che fare con le nostre perdite. Chiedere pietà è riconoscere che prendersela con Dio, con il mondo o con gli altri per le nostre perdite non ren­de piena giustizia alla verità di chi noi siamo. Al mo­mento siamo disposti ad assumerci la responsabilità anche del dolore che non abbiamo causato diretta­mente; il biasimo viene allora convertito in un rico­noscimento del nostro ruolo nella rottura e nella pro­strazione umane… frutto amaro della scelta umana di dire 'no' all'amore.”
Celebrare l'eucaristia è accettare la nostra corresponsabilità per il male che ci circonda e scegliere una vita di perdono, di pace: non lasciarci paralizzare dalle nostre perdite e credere che nel profondo di noi coltiviamo un desiderio di unità, di comunione, di amore.
“Ma nessun pecca­to può essere affrontato senza una qualche conoscenza della grazia. Nessuna perdita può essere rimpianta senza una qualche intuizione che troveremo nuova vi­ta. Quando i discepoli sulla via di Emmaus racconta­rono la loro storia riguardante la loro grande perdi­ta, essi raccontarono anche quella strana storia delle donne che avevano trovato la tomba vuota e che ave­vano visto degli angeli. Ma essi erano scettici e dub­biosi. Questo è in genere il nostro approccio all'eucari­stia. Con uno strano miscuglio di disperazione e speranza.”
«Signore, pietà; Signore, pietà; Signore, pietà». E’ la preghiera che continua ad emergere dalla profondità del nostro essere e a sfondare le pareti del nostro cinismo.

Sì, a volte ci sembra che tutto sia perduto e non rimanga niente delle no­stre speranze e dei nostri sogni. “Eppure c'è una vo­ce: «Ti basta la mia grazia» e noi chiediamo di nuo­vo la guarigione del nostro cuore cinico e osiamo cre­dere che veramente, in mezzo al nostro pianto, pos­siamo trovare un dono di cui essere grati.”

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