Continuiamo la
pubblicazione dell’intervento di p. Timothy Radcliffe (3).
Aprirsi all’amore è molto
pericoloso. Uno, probabilmente, si fa male.
L’Ultima Cena è la storia del
rischio dell’amore. È per questo che Gesù è morto, perché ha amato. Uno che
risveglia desideri e passioni profonde e sconcertanti può correre il pericolo
di rovinare la propria vocazione e di vivere una doppia vita. Avrà bisogno della
grazia per evitare il pericolo, ma non aprirsi all’amore è ancora più
pericoloso, è mortale. Ascoltate C. S. Lewis:
«Amare è in ogni caso essere
vulnerabili. Ama qualcosa e il tuo cuore certamente sarà diviso e rotto. Se
vuoi essere sicuro di mantenerlo intatto, non darlo a nessuno, neppure ad un
animale. Avvolgilo attentamente in hobbies e piccoli lussi; evita ogni
coinvolgimento amoroso; chiudilo al sicuro nell’urna o nella bara del tuo
egoismo. Ma nell’urna - sicura, oscura, immobile, senza aria - cambierà. Non si
romperà; diventerà infrangibile, impenetrabile, irrimediabile. L’alternativa
alla tragedia, o almeno al rischio della tragedia, è la condanna. L’unico luogo,
a parte il cielo, dove può essere perfettamente salvo da tutti i pericoli e perturbazioni
dell’amore è l’inferno» (The Four Loves, London 1960, p 111).
Quando celebriamo l’Eucarestia,
ricordiamo che il sangue di Cristo è versato «per te e per tutti». Il mistero
dell’amore, nel più profondo, è insieme particolare e universale. Se il nostro
amore è solo particolare, allora corre il rischio di diventare introverso e soffocante.
Se è solamente un vago amore universale per tutta l’umanità, allora corre il
rischio di diventare vuoto e senza senso. La tentazione per una coppia è di
tenersi un amore intenso ma chiuso ed esclusivo. Si salva appena dall’essere distruttivo
con l’arrivo di una terza persona, il bambino che espande il loro amore.
La tentazione dei celibi potrebbe
essere tendere verso un amore che è solamente universale, un vago e caldo amore
per tutta l’umanità. Dickens ci parla, in Black House, di Mrs. Jellyby che
aveva una «filantropia telescopica», perché non poteva vedere niente che fosse
più in qua dell’Africa.
Amava gli africani in generale,
ma non si curava della vita dei propri figli.
Non possiamo rifugiarci in questa
filantropia telescopica. Avvicinarci al mistero dell’amore significa anche
amare, persone concrete, alcune con amicizia, altre con profondo affetto.
Dobbiamo imparare ad integrare questi amori nella nostra identità come
religiosi, come sposati o come single. Mi dicono che nel passato si soleva mettere
in guardia i religiosi dalle «amicizie particolari». Il nostro venerabile
Gervase Matthew diceva sempre che gli facevano più paura le «inimicizie
particolari»!
Bede Jarret, domenicano, fu
provinciale della provincia (dei domenicani) di Inghilterra negli anni ‘30. Una
volta scrisse una bella lettera ad un giovane benedettino, di nome Hubert van
Zeller, che dopo la guerra divenne un famoso scrittore di spiritualità. Questo
giovane monaco si era innamorato di una persona che conosciamo solo come P. Fu
un‘esperienza spaventosa. Temeva che fosse la fine della sua vocazione
religiosa. Bede vide che era il principio. Permettetemi di farvene una lunga citazione.
È impressionante pensare che sia stata scritta settanta anni fa. «Gioisco (del
tuo innamoramento) perché credo che la tua tentazione sia sempre stata il
puritanesimo, una costrizione, una certa mancanza di umanità. La tua tendenza era
quasi la negazione della santificazione della materia. Eri innamorato del
Signore, ma non autenticamente innamorato dell’incarnazione. Eri realmente
spaventato. Pensavo (imputandoti ogni sorta di mali senza averne prova) che, se
ti fossi rilassato un momento, saresti esploso. Eri pieno di inibizioni. Quasi
ti uccidevano. Quasi uccidevano la tua umanità. Ti faceva paura la vita perché
volevi essere santo e sapevi che eri un artista. L’artista che è in te vedeva
bellezza da ogni parte; l’uomo che voleva essere santo in te diceva: ‘Caspita,
ma questo è terribilmente pericoloso ‘; il novizio dentro di te diceva: ‘tieni gli
occhi ben chiusi’; Claud (il suo nome di battesimo), quasi saltavi per aria. Se
P. non fosse nella tua vita, saresti potuto scoppiare. Credo che P. salverà la
tua vita. Dirò una messa di ringraziamento per quello che P. ha rappresentato,
e ha fatto, per te. Da molto tempo avevi bisogno di P. I tuoi parenti non
avrebbero potuto sostituire la sua presenza. Tantomeno i vecchi e corpulenti provinciali»
(ed. by Bebe Bailey, Adam Belenger and Simon Tugwell, Letters of Bebe Jarret,
Downside and Blackfriars, 1989, p. 180).
Non sto suggerendo che dovremmo
tutti correre fuori di qui alla ricerca di qualcuno da amare! Dio ci invia gli
amori e le amicizie che sono pane del nostro cammino verso di Lui, che è la
pienezza dell’amore. Aspettiamo coloro che Dio ci invia e quando e come ce li
invia. Ma quando arrivano, allora dobbiamo affrontare il momento, come fece
Gesù nell’Ultima Cena.
Quando amiamo qualcuno
profondamente, allora dobbiamo imparare ad essere casti. Ognuno, scapolo,
sposato o religioso è chiamato alla castità. Non è una parola popolare di
questi tempi, suona bacchettona, fredda, distante, mezzo morta, per niente attraente.
Herbert McCabe, domenicano, ha scritto che «la castità che non è manifestazione
d’amore è essenzialmente il cadavere della vera castità» (Law, love and language,
p. 22).
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