martedì 1 gennaio 2013

Maria Santissima Madre di Dio

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Questo Martediì di festa vi proponaimo un testo estratto dal libro "In nome della Madre" di Erri De Luca. Buona lettura e meditazione.

 

Ho tagliato il cordone, un solo taglio, ho fatto il nodo del sarto e ho strofinato il suo corpo in acqua e sale. Eccolo finalmente. L'ho palpato da tutte le parti fino ai piedi. L'ho an­nusato e per conferma gli ho dato una leccati­na. "Sei proprio un dattero, sei più frutto che figlio." Ho messo l'orecchio sul suo cuore, batteva svelto, colpi di chi ha corso a perdifia­to. Al poco lume della stella l'ho guardato, im­pastato di sangue mio e di perfezione. "Somi­gli a Iosef." Così ho voluto vederlo. "Tuo pa­dre in terra è un uomo coraggioso, tu gli asso­miglierai." Mi sono stesa sotto la coperta di pelle e l'ho attaccato al seno.

Il bue ha muggito piano, l'asina ha sbatac­chiato forte le orecchie. È stato un applauso di bestie il primo benvenuto al mondo di Ieshu, figlio mio. Non ho chiamato Iosef. Gli avevo promesso un figlio all' alba ed era ancora notte. Fino alla prima luce Ieshu è solamente mio. È solamente mio: voglio cantare una canzone con queste tre parole e basta. Stanotte qui a Bet Lèhem è solamente mio. Succhiava e re­spirava, la mia sostanza e l'aria: "Non potrai avere niente di più bello di questo bimbo mio. Il respiro di una notte di kislev scarsa di luna te l'offre la tua terra d'Israele, il succo di ma­dre-pianta lo spremi tu da me. Questo è il me­glio che potremo darti, la tua terra e io" .

Fuori c'è il mondo, i padri, le leggi, gli eser­citi, i registri in cui iscrivere il tuo nome, la circoncisione che ti darà l'appartenenza a un popolo. Fuori c'è odore di vino. Fuori c'è l'ac­campamento degli uomini. Qui dentro siamo solo noi, un calore di bestie ci avvolge e noi siamo al riparo dal mondo fino all' alba. Poi entreranno e tu non sarai più mio.

Ma finché dura la notte, finché la luce di una stella vagante è a picco su di noi, noi siamo i soli al mondo. Possiamo fare a meno di loro, anche di tuo padre Iosef che è il migliore degli uomini. Pensa: noi usciamo di qui all' alba del giorno e fuori non esiste più nessuno, né città, né esseri umani. Pensa: noi siamo i soli al mon­do. Che felicità sarebbe, nessun obbligo all'in­fuori di vivere. Finché dura la notte è così.

Abìtuati al deserto, che è di nessuno e dove si sta tra terra e cielo senza l'ombra di un mu­ro, di un recinto. Abìtuati al bivacco, impara la distanza che protegge dagli uomini. Non è esi­lio il deserto, è il tuo luogo di nascita. Non vie­ni da un sudore di abbracci, da nessuna goccia d'uomo, ma dal vento asciutto di un annuncio. Non si fideranno di te, come sei fatto.
Possa tu provare nostalgia di stanotte quando sarai nella loro assemblea, quando ti ascolteranno, possa tu guardare oltre la loro piazza, dove iniziano le piste.
Abìtuati al deserto che mi ha trasformato in tua madre. Sei venuto da lì, dal vuoto dei cie­li, figlio di una cometa che si è abbassata fino al mio gradino. Non è il censimento a spostar­ci, ma una via tracciata lassù in alto. Stanotte lo capisco, domani l'avrò dimenticato.

Ho dormito poco in questi mesi. Le notti guardavo le carovane delle stelle che i sapienti chiamano costellazioni. Stanotte continua l'in­sonnia, però è la migliore perché posso ab­bracciarti. Hai fatto bene a nascere di notte, lontano dagli uomini e dal giorno. Quello che verrà, domani e poi, sarà il contrario di ora, di stanotte. Stanotte è il tempo di abituarti al de­serto che è tuo padre.

Com'è che non hai pianto, com'è che non piangi? Non puoi, sei forse muto? Meglio sa­rebbe, saresti in salvo, si dà troppa importan­za alle parole, succede che costringono all'esi­lio, alle prigioni o peggio. Portano peso eppu­re sono fiato. Guarda come va su quello della nostra asina e quello del bue che ci ospita è più forte e sale più veloce. Pure il nostro, lo vedi? Soffio e va su.
E le paro1e no, una volta uscite mettono fuori il peso. Quelle di un annuncio ti hanno portato a me, quelle di un profeta danno ordi­ni al futuro.
Ma no che non sei muto e nemmeno stupito di star fuori di me. Muta ero io davanti all'an­gelo, muta ero io. Invece tu, figlio di un vento di parole addosso a me, sarai un vaso di frasi.
Sarai diverso, ma senza esagerare, com'è di­verso un fiocco di neve da un altro, un'oliva dall'altra. Basta poco da noi a finire esclusi: un' opinione su un articolo di legge, sull'amo­re, come il nostro losef che è stato messo al bando in mezzo al popolo per proteggere noi. Tu sei diverso già da ora e neanche è trascorsa un'ora tua. Mi fa paura che non piangi, figlio.

Le voci dei pastori stanno cercando l'alba. Fuori c'è una città che si chiama Bet Lèhem, Casa di Pane. Tu sei nato qui, su una terra for­naia. Tu sei pasta cresciuta in me senza lievito d'uomo. Ti tocco e porto al naso il tuo profu­mo di pane della festa, quello che si porta al tempio e si offre.

Si offre? Che sto dicendo, Signore mio che sto dicendo? Si offre? Ma perché? E perché figlio nasci proprio qui in Casa di Pane? E perché dobbiamo chiamarti leshu? Cosa mi è uscito di bocca: pane, offerta? Non sia mai, no, tu non sei pane, tu sei uno dei tanti mar­mocchi che spuntano al mondo, uno degli in­numerevoli che nemmeno si contano e bruli­cano sulla faccia della Terra. Tu non sei niente di speciale, sei un piccolo ebreo senza impor­tanza che non deve dimostrare niente, non de­ve fare altro che vivere, lavorare, sposarsi e avere il necessario.

Signore del mondo, benedetto, ascolta la preghiera della tua serva che adesso è una ma­dre. Quando nasce un bambino la famiglia si augura che diventi qualcuno, intelligente, si di­stingua dagli altri. Fa' che non sia così. Fa' che questo brivido salito sulla mia schiena, questo freddo venuto dal futuro sia lontano da lui. Lo chiamo Ieshu come vuoi tu, ma non lo recla­mare per qualche tua missione. Fa' che sia un cucciolo qualunque, anche un poco stupido. svogliato, senza studio, un figlio che si mette a bottega da suo padre, impara il mestiere, lo prosegue.

Noi penseremo a trovargli una moglie, lui mi metterà sulle ginocchia una squadra di figli. Signore del mondo, benedetto, fa' che abbia difetti, non si occupi di politica, vada d'accor­do coi Romani e con tutti quelli che verranno a fare i padroni a casa nostra, nella nostra terra. Non ho più visto il messaggero, non l'ho più sentito: è segno che lascerai fare a me e a losef? Certo, ce ne occupiamo noi. Fa' solo che que­sto bambino sia nessuno nella tua storia, fa' che sia un uomo semplice, contento di esserlo e che si arrabbi soltanto con le mosche.
Fa' che non sia bello, non susciti invidie. Ascolta la preghiera alla rovescia della tua serva. Stupida che sono stata a vantarmi in me stessa della sua perfezione, della sua venuta dentro di me senza seme di uomo. Stupida e peccatrice per orgoglio a esaltare la sua specia­lità. Sia nessuno questo tuo Ieshu, sia per te un progetto accantonato, uno dei tuoi pensieri usciti di memoria. Ti pregano già tanto di ri­cordare questo e quello. Scòrdati di Ieshu.

Una nuvola passa e copre la stella. II fiato delle bestie sale sicuro in alto. Ha più forza del­la mia preghiera. Non importa, continuo. Pro­mettimi questo: che non lo sedurrai nei suoi vent'anni, come facesti col tuo Irmiau, * anche lui conosciuto da te mentre era ancora in grembo. Nei vent'anni è un sollievo ardere per un'idea, un impulso di verità e giustizia. Non sia quello il tempo del suo richiamo. Non sia prima dei trenta, prima che sia uomo com­piuto, di scelte meditate. Allora se sarà ancora ferma la tua volontà che me l'ha messo in grembo, te l'offrirò io stessa, come fece Han­na, madre di Samuele. Lei lo portò dopo i tre anni, a me concedi i trenta.

Lo chiamerò ad agire, lo prometto, ma non nel mezzo di una mischia, di una guerra. Sta­notte a lume di una stella viaggiante ho la vista dei ciechi. Tocco il corpo di leshu in punta di dita e lo vedo a una festa di nozze. Non è lui che si sposa, noi siamo invitati. Lui è un uomo, è già nei trent'anni. E io gli chiedo qualcosa e lui mi guarda, arrossisce confuso, non vuole, poi obbedisce. Non so cosa gli ho chiesto, né cosa fa lui per risposta. Intorno la festa conti­nua. So che te lo consegno quel giorno. Non dico: così sia. Dico: non sia prima di così.
Ti ho promesso, promettimi. Ti ho obbedi­to, esaudiscimi.

Ieshu apre gli occhi nel palmo di mano che gli regge la testa. Smette di succhiare, le sue pupille accolgono l'argento della luce notturna.
Sono presa tra voi due. È così per ogni ma­dre o questa notte è l'unica del mondo? Con te imparo il dubbio di essere una qualunque, presa a caso, oppure la più segreta. Certezza è che mi ascolti.

Dormi? Sì, dormi, non ascoltare tua madre infuriata contro se stessa, afferrata alla gola da un terrore. Dormi, respira sazio, cresci, ma poco, lentamente, vivi, ma di nascosto. Aspet­to il tuo primo sorriso per coprirlo, che non abbagli il mondo e ti denunci. Dormi, domani vedrai la prima luce della tua vita e avrai di fianco la tua prima ombra. Dentro di me non ne facevi. Dormi, sogna che sei ancora lì, che la tua vita ha ancora il mio indirizzo. In sogno ci potrai tornare sempre.

Che vuoto mi hai lasciato, che spazio inuti­le dentro di me deve imparare a chiudersi. Il mio corpo ha perso il centro, da adesso in poi noi siamo due staccati, che possono abbrac­ciarsi e mai tornare una persona sola. A terra sulle pietre della stalla c'è la placenta, il sacco vuoto della nostra attesa.

Sta sbiadendo la luce della stella, il giorno viene strisciando da oriente e scardina la not­te. I pastori contano le pecore prima di spar­gerle sui pascoli. Iosef sta sulla porta. Ieshu, bambino mio, ti presento il mondo. Entra Iosef, questo adesso è tuo figlio.

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