domenica 27 ottobre 2013

Arbitrio del Tu

Per il Vangelo di questa domenica vi suggerisco la lettura di un testo di Erri De Luca. Non propone un commento a questo passo del Vangelo di Luca, ma a me ha fatto tanto venire in mente quel pubblicano che da del "Tu" a Dio e continuamente si mette in discussione.

"Da lettore assiduo di scrittura sacra frequento l'ebraico antico delle prime storie, dei profeti, dei salmi raccolti nell'Antico Testamento. L'usanza quotidiana non ha fatto di me un credente. la mia esperienza di lettore accampato fuori dalle mura dipende, per me, da due inciampi.
Il primo è la preghiera, questa potenza e possibilità del credente di rivolgersi. Dare il "tu" a Dio, con le variazioni che stanno tra l'imprecazione e la supplica è l'arbitro meraviglioso della creatura che risale alla sua origine e l'interroga, la chiama, la scuote dalla sua distanza. Chi ha esclamato per la prima volta la prima preghiera non può averla inventata. Può solo aver reagito a una chiamata con una risposta, come Abramo con suo "hinnèni", eccomi. Eccomi è la prima parola, la premessa di ogni preghiera. La creatura si separa dal resto della specie e del creato, si esclude per stabilire la relazione. La preghiera avviene sempre in un'estremità del campo. Si legge nel salmo 78: " E li condusse al suo confine santo" (Sal 78,54). Dio porta gli ebrei nel deserto, perchè quello è il luogo dell'incontro. Non li chiama in un centro, in una piazza, ma nell'isolamento inospitale del vento e della polvere. Nel deserto: questo è il luogo fisico della preghiera. Il credente fa il vuoto intorno a sè e così fa avvenire l'incontro.
Leggo nel verso del salmo un doppio spostamento: quello del popolo che segue la via maestra del deserto e quello di Dio che si sposta anche lui per andare. Ha rinunciato a essere dappertutto per far posto alla creatura e al creato, perciò anche lui deve raggiungere il confine per incontrare i suoi. Il silenzio di Dio è il suo ascolto, chi prega lo raggiunge.
Non lo so fare, non so rivolgermi. Forse uno come me si accanisce nella scrittura proprio perchè non sa rivolgersi nemmeno agli altri e riduce lo scambio a questo crampo della mano, al saliscendi di una penna che traccia lettere su un foglio. Fingo che sia la mia voce, l'impulso di suscitare un sorriso, un'intesa, un affetto. Non so rivolgermi, non so il pronome della preghiera. Pratico il surrogato "tu" della scrittura.
Parlo di Dio in terza persona, leggo di lui, sento parlare di lui e sento vivere altri di lui (chiedo di lasciarmi il carattere minuscolo di "lui". Chi non crede non ha il diritto di usare la maiuscola). I volontari cattolici che per cinque anni mi hanno portato con loro come autista di convogli di aiuti in Bosnia, vivono di quel "lui". Presso di loro mi accorgo, sperimento questa dedica semplice, questo oriente che tutela anche quando affanna. Scrivo queste parole alla loro ombra. Parlo di Dio in terza persona perchè leggo il suo nome nelle storie sacre, tutti i giorni. Sono un testimone indiretto: vedo le parole dell'Antico Testamento non riducibili a opera di autori vari, vedo le vite degli amici cattolici non riducibili a una loro buona indole o volontà, ma scavate da un'impronta digitale. Con tutto questo, rimango uno che parla di Dio in terza persona. Il mio piede urta ogni giorno in questa pietra della preghiera, non la può scavalcare, perchè la preghiera è la soglia.
L'altro inciampo è il perdono. Non so perdonare e non posso ammettere di essere perdonato. E' bestemmia per il credente, per lui non c'è colpa che non possa essere sollevata da Dio. Rabbi Nachman di Bretslaw stabiliva che il pentimento non era un impulso di distacco, lo slancio che fa staccare il tuffatore dalla sporgenza, ma il sentimento per il quale uno si trova davanti all'errore, al torto e per a prima volta non vi ricade, non lo ricommette. Nachman dice che il pentimento è un progetto che riguarda il futuro, più che il rammarico rivolto al passato.
Se non mi capiterà di ripetere un torto, sarà per lo scarto del tempo, per l'età che si fa adulta e accumula stanchezza, che è una saggezza secondaria, non per un pentimento. Nella mia vita c'è una soglia dell'imperdonabile, del non più riparabile. Non posso ammettere di essere perdonato, non so perdonare quello che è commesso. Ecco le mie pietre di inciampo per le quali resto fuori dalla comunità dei credenti.
Leggo le storie sacre, ne ricevo l'immensità di un senso anche restando alla superficie delle parole. Già il primo verso del salmo letto stamattina: Shomreni El ki hasìti bac, "Custodiscimi El perchè ho fatto rifugio in te" (Sal 16,1): quale privilegio assoluto sta nella voce di Davide che dichiara di essersi messo al riparo di dio. Come può saperlo? Come può credere che il suo intento di rifugiarsi sia stato esaudito? Eppure è così, la sua volontà di compie per il solo fatto di aver fede. Può dire senza presunzione: "Ho fatto rifugio in te".
E prima ancora di questo, usa con Dio non la preghiera ma il modo verbale all'imperativo: custodiscimi. E' un ordine. Davide è re, condottiero di soldati, sa cosa è un ordine. Lo rivolge a Dio come prima parabola del suo salmo. Ecco, già il primo verso del giorno mi sbaraglia col suo solo senso letterale: per la forza naturale, l'impeto di questo rivolgersi a Dio, una febbre della necessità che non so leggere senza vacillare sul trespolo di pappagallo da cui scruto il libro.
Così le storie sacre tengono compagnia a un lettore. Posso dire di essere un molestatore di quelle parole, di non lasciarle in pace, di tornare indietro da loro con un pugno di cenere calda. Chiunque abbia fede trova invece in quelle pagine la materia di cui è fatto il roveto ardente di Mosè, che arde senza residui di combustione, senza consumarsi."
Erri De Luca, Nocciolo d'oliva

Per chi desidera leggere un commento sul testo suggerisco questo commento di P. Ermes Ronchi

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